lunedì 2 febbraio 2015

NOTE CASOLANE - La catastrofe di Casola Valsenio

Cimitero di Casola Valsenio, il cippo che ricorda le vittime della frana del 21 gennaio 1889
Avvenne a Casola, il 21 gennaio 1889: una frana disastrosa e devastante spazzò via, trascinandole al fiume, le case che sorgevano sul versante destro del Senio, oltre il ponte della Soglia, nella zona denominata Vallibòna, provocando decine di morti. Come scriveva Alfredo Oriani nella lettera-appello che il 27 gennaio di quello stesso anno pubblicò sul giornale faentino "Il Lamone", è stata "...la base di un monte che oscillando, spinta da una misteriosa forza sotterranea, ha travolto e campi e case, sconvolto l’aspetto del paesaggio, distrutta ogni sembianza di vita". 

Dal giornale “Il Lamone” - Faenza, 27 gennaio 1889.

La catastrofe di Casola Valsenio

Dall’egregio nostro concittadino ed amico avv. Alfredo Oriani alla cui cortesia ci rivolgemmo non appena si sparse la voce del disastro di Casola Valsenio, riceviamo la seguente lettera
che siamo orgogliosi di pubblicare.


Casola Valsenio, 22 Gennaio 1889, ore 9 pom.

Signore,
poiché mi chiedeste con affettuosa cortesia una relazione sul disastro che colpiva ieri Casola Valsenio, eccomi col cuore lacerato a soddisfare un impegno che la sventura rende sacro.
Né la mia, né alcun altra immaginazione poteva rappresentarli con tragico presentimento l’angoscioso spettacolo che mi ha colpito, appena giunto in vista del vecchio ponte che salda da quattro secoli le ripe rocciose del Senio. Non è una piena, non una valanga, ma la base di un monte che oscillando, spinta da una misteriosa forza sotterranea, ha travolto e campi e case, sconvolto l’aspetto del paesaggio, distrutta ogni sembianza di vita.
Uccisi, seppelliti, storpiati, resi irriconoscibili, sanguinanti, ancora dopo un giorno di morte, tutti i poveri abitanti di parecchi casolari che la miseria popolava da secoli e che la natura da secoli aveva rispettato.
Come fu… sintomi del disastro o non se n’ebbero o sfuggirono al calmo coraggio dei contadini e degli operai che abitavano quei tuguri e coltivavano quei campi. Adesso dopo 24 ore non è ancora possibile raccogliere dagli atterriti discorsi di tutti, precisi particolari della catastrofe. Qualcuno racconta, con occhio incerto e labbra tremule, di essere stato svegliato di soprassalto da un cupo rombo, immane, di essersi affacciato alle finestre che da Casola guardavano al monte franato, e di aver veduto nella ombra pallida del crepuscolo, una oscillazione fantastica, come un fumo, una polvere; di aver inteso dei gridi, che non erano più umani, di aver veduto un effimero biancheggiare di case che sparivano, di aver sentito il fiume tremare come di spavento, il paese rabbrividire come percorso da un brivido inesplicabile; e poi l’ombra pallida, mesta, insensibile avvolgere e pesare sul mistero, mentre qualche gemito saliva ancora e l’acqua del fiume rispondeva gorgogliando il suo eterno lamento. Che cosa è avvenuto? Pochi avevano sentito, nessuno sapeva nulla, Ma indi a poco la campana della parrocchia gettò nel crepuscolo uno squillo di terrore! La corriera del paese era già partita, e non sapendo nulla non poteva ancora di mandare soccorso. Mi si dice che l’Arciprete e certo carrettiere
Sopini (?) fossero dei primi a destarsi e vestendosi appena, uscirono quasi fuggendo dalla parrocchia e correndo a precipizio giù per la discesa del vecchio ponte si avanzarono intrepidi e esterrefatti su per la frana ancora tremula, e guidati da voci di dolore poterono primi salvare una bimba e un accattone, che la frana aveva travolti, lasciandoli nudi e semipazzi a piangere nell’ombra.
La casa del podere franato ha scivolato forse per 100, 150 o 200 metri, spaccandosi all’urto della frana nella infrangibile ripa del ruscello che le serviva da confine; giù nel greto del fiume le case addossate all’ala del ponte sono rimaste sepolte istantaneamente, impossibile riconoscere adesso dove sorgessero. Ricordo che una era tutta bianca, quasi linda; e metteva un sorriso ilare nella oscurità grigia della ripa e fra le labbra secolare degli altri tuguri.
Un’altra saliva quasi a torre, povera torre, sulla quale una capra, inerpicandosi sulla ripa avrebbe potuto forse brucare il lichene dei tetti, ed adesso è spianata seppellendo i suoi poveri abitanti.
Una sola donna, inferma da anni, rachitica e gobba è sopravvissuta riparandosi sotto la cappa del cammino, e piange, non parla, non capisce. Sotto le altre case sono morti 15 o 20 infelici. Vi ho riconosciuto rabbrividendo due dei miei migliori operai; uno era ancora vivo; i primi soccorsi hanno tentato di estrarlo di sotto le macerie, gli hanno parlato, ha risposto loro e ha taciuto.
Era morto! Si è trovata una povera mamma, moglie di un altro fra i miei operai col bambino al petto. Me la ricordo viva, era alta, magra, robusta; pareva quasi un uomo; senza dubbio il rombo della frana la percosse dandole quella terribile e forte impressione del viso che conserva anche morta: fece arco delle spalle per proteggere il suo bambino, e la casa cadde e l’arco si franse e il bambino morì.
Sono fuggito dal luogo del disastro per risalire all’ospedale, dove hanno ricoverato i cadaveri.
L’ospedale è basso, lindo, povero. Si passa l’atrio, si penetra nel cortile.
L’unica donna che vi serve, portinaia e infermiera, mi conduce piangendo a una porta laterale, che pare debba immettere a una cantina, penetra in una stanza abbandonata, trasformata in camera mortuaria. Le pareti sono gialle, la luce opaca. Vi è un freddo di morte: sul pavimento, distesi, allineati, ravvolti in cenci laceri e scoloriti vi sono 19 cadaveri. Così ravviluppati non assomigliano a nulla. Sollevo qualche cencio e scopro dei visi depressi; le teste non sono più teste, vi sono degli occhi schiacciati e sbarrati. Il colore del volto è indefinibile.
Grumi di sangue impiastricciano le fisionomie che nessuna esperienza d’amicizia, nessuna intuizione d’amore potrebbe riconoscere.
Ho scoperto il cadavere di una donna, cereo e contuso, teneva le mani giunte; avrà pregato all’ultimo minuto. È morta e si sarà salvata.
Così interpreta la pietà costernata di chi la conobbe da viva.
In questo punto entra il mio parroco, ma si commuove e usciamo, insieme. Dall’ospedale, che guarda la ripa opposta franosa, si scopre una folla brulicante, pallida, cenciosa che lavora a disseppellire gli ultimi cadaveri. Le monture dei carabinieri nereggiano sul grigio della folla e della terra. Quei soldati sono là da quasi 24 ore. Accorsero subito, hanno incitato, lavorato, consolato.
Sono ammirabili di disciplina, di pazienza, di coraggio. Veggo un maggiore e due tenenti.
La ripa opposta del fiume, più basso il muraglione che sostiene l’antica Casola, sono gremiti di una folla silenziosa che guarda e pensa. Ormai si sa tutto e nulla meno pare non si sappia ancor nulla. Il disastro rimane immenso, assurdo.
Dai confini della Toscana, giù da Castelbolognese, da Riolo, dai monti sovrastanti Brisighella e Fontana sono accorsi contadini e gente di ogni sorta attirati al rumore del disastro. Si preparano i funerali.
Saranno grandi, pietosi come la sventura.
Io parto. Imparo andandomene che si è rinvenuto l’ultimo cadavere. È piantato giù nel terreno; non si veggono che i piedi, laceri, sformati. L’orribile tragedia sembrò chiudersi con un supplizio; questo povero morto è morto propagginato. Un particolare, degno di Victor Hugo: il fratello del morto, un contadino livido, muto, batte disperatamente con la zappa per estrarlo di sotto a un monte di sassi e travi. La gente guarda questo fratello e non parla.
Quest’oggi alle ore 4 hanno avuto luogo i funerali. Bandiere abbrunate precedevano il corteo, bandiere abbrunate pendevano dalle finestre. Il corteo era enorme: non vi era tutta Casola; ma tutti gli abitanti della valle; la società operaia precedeva, poi un carro di contadini enorme, alto, troppo alto, con venti casse da morto ricoperte di un povero panno inghirlandate di edera. Invece dei cavalli lo tiravano due buoi. L’impressione era straziante. I buoi scarni, bruni, dal passo silenzioso, s’avanzavano a testa bassa. Un pensiero tristemente poetico li aveva addobbati di gramaglie.
Dopo il carro, allineati silenziosi, camminavamo tutti noi. Vi era il signor Prefetto, accorso con generosa prontezza, il Pretore, il Sindaco, gli Ufficiali dei Carabinieri; dopo di noi una lunga fila di donne vestite a nero, che nascondevano sotto il velo le lagrime involontarie, e poi tutti, contadini, vecchi, fanciulli; nessuno era rimasto in paese. Non si udiva parola, la banda suonava.
Al cimitero il maestro Pio Ferri e Evaristo Zaccarini hanno detto poche e nobili parole. Ho visto piangere; era difficile non piangere; sunt lacrimae rerum. E adesso tutto è finito. È finito per i poveri morti, ma rimangono gli orfani, ma rimane la paura, le case sepolte, la minaccia di altre frane, altre case che si sono dovute abbandonare, molta gente, troppa gente che non ha più tetto, non ha più masserizie, che non sa come vivere e che teme di sapere come morrà.
Bisogna pure aiutare, bisogna pure che qualcuno si presti. Casola farà di tutto e non potrà far molto; il dovere della pietà s’impone ai paesi vicini, alla provincia, al Governo.
Questa relazione che voi egregio signore, voleste chiedermi ve la mando come un appello che voi dovreste ripetere col vostro giornale a Faenza, vostra come mia patria. Se avessi autorità per farlo, chiederei in nome mio per questo villaggio così infelice e così degno di soccorso; non l’ho e mi rivolgo a voi, al vostro giornale che è e deve essere falange.
Non suggerisco modi, non indico espedienti. Fate tutto ciò che potete, e se la mia parola e la mia penna potessero mai sembrarvi possibili come strumenti di carità, calcolate sopra di essi, la mia parola e la mia penna sono per Casola e per Faenza, la patria della mia famiglia e del mio pensiero.
E adesso perdonatemi questa lunga lettera pensando, che la sventura e il dolore che l’hanno prodotta saranno anche troppo lunghi, e che se ci sarà concesso lenirli, né io né voi potremo mai dimenticarli.

Alfredo Oriani

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