giovedì 28 aprile 2016

In risposta al documento del "Concilio degli emeriti": perché noi diciamo SI alla riforma della Costituzione

di Elisabetta Gualmini e Salvatore Vassallo (*)

Cari emeriti,
proprio non vi capiamo. Abbiamo grande rispetto per voi e per il documento diffuso qualche giorno fa. Per questo, avendolo letto con attenzione, abbiamo deciso di scrivervi. Siete tutti accademici accreditati, molti di voi hanno ricoperto alti incarichi istituzionali. Essendo però come noi, prima di tutto, dei ricercatori, di sicuro considererete normali il contraddittorio e le confutazioni. Avendo deciso di agire in gruppo per una iniziativa politica troverete anche ovvio che essa sia oggetto di un giudizio pubblico appassionato.

Alcuni tra voi 56 sono membri di un club di cauti riformatori a cui ci siamo sempre ispirati, che però non hanno trovato nel loro tempo la finestra di opportunità per riformare. Altri sono convinti da sempre che la Costituzione sia intoccabile, che fuori dal sistema proporzionale non c’è democrazia, come un tempo fuori dalla Chiesa non c’era salvezza, e che in ultima istanza sulle cose veramente importanti, piuttosto che la politica, sia meglio che decidano istituzioni di sapienti, di nobili coltivati da colte letture, messi al riparo dalla becera necessità di conquistare il consenso e governare giorno per giorno gli interessi in conflitto.

Ci scuserete se abbiamo fatto due conti sulla vostra età, che in media è di 69 anni. Quattordici di voi sono stati giudici costituzionali. Ben dieci hanno goduto delle vorticose rotazioni alla presidenza della Consulta basate sull’anzianità – tre nel solo 2011 – su cui si è soffermato Sabino Cassese nel suo istruttivo Dentro la Corte (Il Mulino, 2015) e sono dunque “emeriti”, con le annesse prerogative. In questo sottogruppo di supersaggi, l’età media supera gli 81 anni. Siete tutti invidiabilmente lucidi. Non è questo il punto che vogliamo sollevare. Né noi due siamo particolarmente giovani, a dirla tutta.  Ci pare però significativo il criterio in base al quale il gruppo si è autoselezionato, uno specchio di certe istituzioni italiane, un po’ decadenti, che ci è capitato di frequentare. A maggior ragione ci pare stonato il messaggio di fondo che proponete, di fronte a un Paese che sta cercando affannosamente di ricominciare a crescere. Il messaggio suona più o meno così: “noi che deteniamo le massime conoscenze teoretiche sull’oggetto, noi che siamo la quintessenza della saggezza, noi che siamo l’empireo dei Professori ci siamo riuniti in concilio, abbiamo attentamente soppesato i pro e i contro della riforma costituzionale, e abbiamo deciso di dire NO. E poi NO.”

A pensar male, il primo sottinteso pare una rivalsa, condita di un certo disprezzo, verso Renzi-il-plebeo, uno che parla in maniera approssimativa e irruente, che schifa i tecnici e ancora di più i professoroni, i loro convegni e le loro tartine. Non li invita a cena, non li promuove a ruoli importanti, se può ne fa volentieri a meno. O verso la Boschi-così-leggera, una neo-laureata senza nemmeno un dottorato di ricerca in diritto pubblico che, ciononostante, non ha sentito il bisogno di convocare un Concilio di emeriti prima di proferire verbo sulla materia (come se poi non fossero bastati tutti i precedenti, dalla Bicamerale Bozzi del 1982 alla Commissione dei Saggi del 2013).

Ma veniamo al merito. Il vostro documento, forse per la combinazione di idee tanto diverse, per quanto accomunate dallo status, presenta a nostro parere una serie di contraddizioni evidenti proprio sui punti politicamente più rilevanti.

La prima è che alcuni di voi, nel giro di poche settimane, hanno dovuto sotterrare la bomba-bufala della “svolta autoritaria” e hanno imbracciato lo spadino-di-cartoncino del diavolo che si annida nei dettagli. Il prof. Gustavo Zagrebelsky, in un documento del 31 marzo 2014 intitolato proprio in quel modo, sosteneva che «stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione […] per creare un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali». E in un altro del 6 marzo 2016  parlava della riforma come «la razionalizzazione d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide democratica». Il documento dei 56 di cui Zagrebelsky è cofirmatario pone invece questioni minori sulla ripartizione dei poteri tra senato e camera o tra stato e regioni, da cui solo con molta fantasia e una sviluppata propensione alle teorie del complotto si possono far discendere i pericoli di cui sopra.

Avreste voluto un Senato con maggiori poteri, ma allo stesso tempo un processo legislativo più semplice. Uno studente del primo anno verrebbe inchiodato di fronte alla banalità della contraddizione. Per dare più rilevanza al Senato bisognerebbe stabilire in quali altre materie ha maggiori poteri, chi ha la prerogativa di smembrare i progetti di legge che le contengono, con quali procedure e quali maggioranze il senato le esamina o le approva. Il sistema proposto dalla Boschi-Renzi è comunque semplicissimo. Ha solo due procedimenti, pienamente bicamerale per norme ordinamentali e di rango costituzionale, a prevalenza della Camera per il resto. E in ogni caso, per evitare in radice le incertezze e i conflitti di cui vi state preoccupando ci sono solo due strade: il monocameralismo o il bicameralismo perfettamente paritario.

Avreste preferito inoltre che in Italia fosse trapiantato il Bundesrat tedesco. Non lo dite apertamente, ma lamentate che nel Senato voluto dalla riforma «non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche». Ora, l’unico senso che si può dare a questa frase è: «sarebbe stato molto meglio un Senato composto solo dai Presidenti delle Regioni e da loro delegati, come in Germania». A meno che non pensiate ad un Senato di supersaggi, scelti non si sa come, capaci di rappresentare meglio dei Presidenti, eletti dai cittadini, le Regioni «in quanto tali» e non «in base ad appartenenze politico-partitiche». Ci chiediamo che cosa avrebbe scritto del Bundesrtat italiano, cioè di un Senato più forte, che sarebbe composto oggi all’80% da Presidenti del Pd-di-Renzi, il prof. Zagrebelsky sul Fatto Quotidiano…

Sembrate considerare una mera eventualità il fatto che il referendum riguardi l’intera legge approvata dal Parlamento, mentre proponete una votazione per parti, mettendo in dubbio quanto scrive a chiare lettere la Costituzione ed è già stato fatto nel 2006. Ci chiediamo sommessamente: quale magistrato della Cassazione o della Corte costituzionale avrebbe il potere di preparare lo spezzatino? Come è possibile che poniate un problema del genere? Sollecitate forse un rimpallo tra Cassazione e Corte costituzionale per rinviare? Ne avete già discusso con qualcuno che siede in quelle istituzioni?

Ma ancora di più ci stupisce, o forse no, quello che nel documento manca.

Non c’è nessuna preoccupazione verso la possente ondata di riprovazione popolare di cui sono oggi oggetto la politica e le istituzioni, e la necessità oggettiva di dare meditati segnali di sobrietà. Evidentemente per voi i costi della politica non sono un grosso problema e comunque sono altrove. Avreste voluto un altro Cnel al posto del Cnel. E sempre secondo voi non è così importante ridurre il numero dei parlamentari. Decostituzionalizzare le province (che non vuol dire abolire per forza e dappertutto un ente di area vasta, come voi scrivete) non va bene.

Dal documento non traspare la minima sensibilità verso il contesto in cui la riforma è maturata e verso gli effetti di una bocciatura basata sulla ricerca di un ottimo metafisico che pare nemico assoluto del bene per i contemporanei. Nessun accenno al fatto che senza l’entrata in vigore della riforma costituzionale e dell’Italicum entro il 2016, cioè almeno 18 mesi prima della scadenza naturale della XVII legislatura, i successivi governi sarebbero destinati a dibattersi tra instabilità e inconcludenza, e il parlamento tornerebbe a essere un suq. Anche a causa di quei giudici della Corte costituzionale che con la sentenza numero 1 del 2014 hanno reintrodotto di loro pugno, contraddicendo la volontà ripetutamente espressa con chiarezza dai cittadini italiani e dal parlamento, un sistema elettorale proporzionale, simile a quello della Prima Repubblica.

Nel documento nemmeno si intravede il fosso in cui Paese si sarebbe piantato senza l’impuntatura a schiena dritta del canuto-Re-Giorgio e il testimone preso dal giovane-Renzi-il-plebeo. Come se voi non sapeste che solo la determinazione congiunta del ragazzo che sta a Palazzo Chigi e dell’anziano ex-inquilino del Quirinale ha potuto rompere le fortissime resistenze sotterranee che hanno impedito per trent’anni di fare quanto Costantino Mortati considerava ovvio già nel 1972, e cioè trasformare il senato in una sede di rappresentanza degli enti territoriali. Perso questo treno, difficilmente ne passerà a breve un altro.

Noi, contrariamente a voi, siamo molto preoccupati per questa eventualità, non per il governo Renzi, ma per chiunque dovrà governare e vivere in Italia dopo. E siamo anche consapevoli, nel nostro piccolo, che le riforme ottime non esistono, come insegnano i buoni manuali di diritto pubblico e di politica comparata, che tutte sono perfettibili e che farle con un governo di compromesso uscito fuori per miracolo da una situazione di completa paralisi non era un’operazione semplice. E quindi diciamo SI. E poi Sì.

(Articolo pubblicato su l’Unità)

(*) - Salvatore Vassallo è professore ordinario nell'Università di Bologna. Insegna Scienza Politica e Analisi dell'Opinione Pubblica. Deputato nella XVI legislatura (2008-13). È presidente di iDemLab. Elisabetta Gualmini è vice-presidente della Regione Emilia Romagna, con delega al welfare. Politologa, è professore ordinario presso l'Università di Bologna ed è stata presidente dell'Istituto Cattaneo.

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