domenica 15 gennaio 2012

Il gioco del «fuori rotta» che ha causato il disastro

Non hanno rispettato il mare, non hanno rispettato le oltre quattromila vite che avevano in cura, nella grande nave. Sul Titanic ballavano, al suono dell’orchestra. Sulla Costa Concordia «salutavano», per una superba e sciagurata abitudine: passare il più vicino possibile alla riva, alle case, alle luci. Agli scogli, anche. Uno è conficcato nello scafo, vicino alla poppa. Strappato dalle viscere del mondo, non è lui che ha affondato la nave.
 È l’uomo, che l’ha portata sulla rotta sbagliata, consapevolmente. Lo dicono tutti in questo posto che conosce il mare, da questi moli che odorano di pesce e gasolio. Dicevano: «Prima o poi succede». Succede cosa? «Succede che qualche nave ci sbatte». Prima o poi succede. E oggi raccontiamo cosa è successo, con l’angoscia di un numero che resterà segreto ancora un po’, e che una volta svelato disegnerà i contorni del fatto: una tragedia, una strage. I morti recuperati da questa babele del mare sono cinque. Secondo gli elenchi erano a bordo della Costa Concordia 4.232 persone. Mancano all’appello, a oggi, ancora 17 persone.
Li chiamano dispersi e forse c’è una parte di verità in questa definizione che di solito è l’anticamera del certificato di morte: nei conteggi ufficiali capita di sbagliare, e poi qualcuno potrebbe essersi messo in salvo senza farsi contare. Gli altri sono ancora dentro, perché il mare è stato battuto per molte ore dai sommozzatori. Le acque erano calme, limpide. I cadaveri non c’erano. Mentre è impossibile entrare nella pancia della nave, che è stesa su un fianco, a 70 gradi, appoggiata alla riva, ma non ferma: il mare la risucchia.
Non c’è sicurezza e si attende una piantina dettagliata per cercare a colpo sicuro, fra cabine ancora chiuse a dentro al garage. La Costa Concordia ha trovato lo scoglio alle 21:30 di venerdì. Ci sono tre sassi di grandezza degradante, appena sotto costa. Il quarto era subacqueo, cinque-sei metri sotto il pelo del mare.
Il comandante Francesco Schettino, 53 anni, sorrentino, si difende: «Lo scoglio non era segnalato dalle carte nautiche». Non doveva essere un suo problema: le regole di sicurezza impongono 5 miglia di distanza dalla costa.
Lo scoglio era a duecento metri. Adesso Schettino è in stato di fermo ed ha passato la notte nel carcere di Grosseto, perché «si è avvicinato molto maldestramente all’Isola del Giglio», secondo il procuratore di Grosseto Francesco Verusio. C’è anche un’onta nel complesso delle accuse: «Ha abbandonato la nave attorno alle 23 e 30, quando ancora c’erano migliaia di passeggeri a bordo che attendevano di essere messi al sicuro». All’alba il comandante aveva chiamato a casa, «è successa una tragedia, ma ho provato a salvare i passeggeri» ha detto all’anziana madre, Rosa.
Dovrà convincere anche i magistrati che quella che lui ha definito «una rotta turistica» non fosse anche pericolosa. C’è chi insinua: «Viaggiando nella acque più basse si risparmia carburante, si scorre quasi d’inerzia». Sembra troppo doloroso da credere. Al Giglio d’inverno ci stanno cento persone, e sono tutte qui, schiaffeggiate dal vento freddo, che s’infila ovunque. Sono sul porticciolo da quasi venti ore. Hanno visto gente volare. «Si buttavano e non arrivavano mai all’acqua, sembrava un film».
I viaggiatori racconteranno della feroce disperazione, che li ha mossi a quel gesto. Quattro ragazzi americani conteggiati fra i dispersi si sono invece salvati così: nuotando nell’acqua scura, verso le luci. I racconti fermano un tempo impossibile: «Ci strappavamo i salvagenti, sembrava una lotta per la sopravvivenza». Lo era. Le scialuppe da 150 posti sono state assaltate, le operazioni di trasbordo sono durate fino alle 3 del mattino. Umanità Davanti agli isolani è sfilata un’umanità impressionante: c’erano cittadini di 4 continenti a bordo. Li hanno ospitati, ristorati, anche a Porto Santo Stefano dove la protezione civile ha allestito il punto di accoglienza.
«Sembrava il Titanic»: è la frase che si ascolta più spesso. Curioso: nessuno si riferisce alla mitica tragedia della notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, quasi cento anni fa, quando la nave passeggeri britannica della Olimpyc Class, affondò in meno di tre ore dopo la collisione con un iceberg. Raccontano scene che nell’immaginario collettivo sono arrivate con il film di James Cameron. C’è un pezzo di storia, davanti ai gigliesi: la più capiente nave passeggeri mai affondata. E inanime. Ci vorranno mesi per toglierla. Di solito, le navi vengono seppellite dove affondano: troppo costoso e faticoso rimuoverle. Ma qui non siamo in mare aperto.
Bisognerà evitare che si consumi sulla sponda più aspra di questo piccolo paradiso. Intanto, il ministero delle Infrastrutture assicura che lo scafo è stato messo in sicurezza «per evitare fuoruscite di sostanze inquinanti, anche travasando alcuni liquidi». Profumo d’agrumi: così si chiamava la crociera. Appena cominciata, da Civitavecchia, e diretta verso Savona, e poi Marsiglia. Finita addosso a uno scoglio. Il comandante ha provato a proseguire, per nascondere l’errore di rotta. La nave ha imbarcato acqua, è partito l’allarme, è andata via la corrente, i passeggeri sono stati sopraffatti dal panico. Per questo la Costa ha scelto la strada più vicina, virando bruscamente. Fermandosi. La nave è come distesa su un fianco e sembra morta.

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