di Fabrizio Lorusso (l’Unità, 22 giugno 2013)
Oltre un milione di persone si sono riversate per le strade di un centinaio città brasiliane nel pomeriggio di giovedì 20 giugno. Ma sono più di dieci giorni che in decine di città del Brasile le manifestazioni popolari sono inarrestabili, nonostante numerosi episodi di repressione violenta da parte della polizia e, a un livello più “folclorico” ma emblematico, gli spropositi proferiti da O Rey Pelè che ha cercato di richiamare all’ordine i manifestanti, suggerendo loro di concentrarsi sulle partite della seleção e farla finita con le proteste. Il suo appello è giustamente sprofondato nell’oblio.
Intanto, solo nella sera di giovedì 20, ci sono stati 60 feriti a Rio, altri 30 a Brasilia e 1 morto a Ribeirão Preto. Come erroneamente alcuni media italiani hanno riportato, non si tratta di un movimento “contro i mondiali di calcio” o semplicemente contro il rincaro dei biglietti dei trasporti pubblici, deciso dai sindaci delle località che ospiteranno le partite nel 2014, per provare a recuperare le spese sostenute in questi anni. Di fatto, per esempio a Brasilia, la protesta è stata battezzata come un “Atto nazionale contro l’aumento dei biglietti, le violazioni legate alla coppa del mondo e la criminalizzazione della lotta popolare”. Dopo le prime giornate di lotta la settimana scorsa la gente è scesa in massa per le strade anche per rispondere alla repressione della polizia che aveva fatto 100 feriti e 190 detenuti. Ad ogni modo i motivi e le chiavi di lettura della protesta rivelano scenari e sentieri poco praticati dai mezzi di comunicazione nostrani, spesso avvezzi alla semplificazione della realtà e della storia latino americane.
Dalla Turchia al Brasile le piazze e la gente s’espongono e s’indignano, sperimentando diverse forme di partecipazione e protesta. Lottano contro l’esclusione dalla democrazia reale, sempre più lontana, “televisivamente” contaminata e infine sostituita dai surrogati del mercato e del privatismo, e dal sogno dello “sviluppo economico” di cui gran parte della popolazione è più vittima o semplice spettatrice che artefice o beneficiaria. Ed è un “sogno” che, tra l’altro, i paesi dell’America Latina hanno già provato a vivere a più riprese, quasi sempre interrotte da dittature, populismi, ingerenze straniere, colpi di stato e “problemi strutturali” sia negli anni trenta che negli anni sessanta del secolo scorso.
Da Istanbul a Brasilia parliamo di due paesi cosiddetti “emergenti”, seppur in modi, contesti e tempi assai differenti tra di loro, e di risvegli improvvisi, ma non imprevedibili né ingiustificati. Non sono gli alberi del Gezi Park a Istanbul o l’aumento di 20 centesimi di Real del biglietto per i trasporti pubblici di San Paolo e Rio (e di altre città che ospiteranno i mondiali di calcio) i motivi dell’incendio, ma sono solo le scintille che appiccano il fuoco e uniscono le masse attorno a esigenze certamente più trascendenti e ispiratrici che coinvolgono settori anche molto diversi della popolazione e spaziano da proposte di riforma del sistema fino a idee per il suo superamento.
Il Brasile del PT (Partido dos Trabalhadores), dell’ex presidente Ignacio “Lula” da Silva (il “presidente operaio”, dal 2003 al 2010) e di Dilma Roussef (la “presidentessa guerrigliera”, 2011-14) ha 200 milioni di abitanti, è la prima economia dell’America Latina, sesta del mondo, e nell’ultimo decennio ha sicuramente fatto dei grossi passi avanti nella lotta alla povertà e nell’ampliamento della classe media grazie a un’economia che ha registrato una media di crescita del 4% per otto anni di fila (2003-2011). Il ”gigante del Sud” si erge dunque a potenza regionale sudamericana, ma anche ad attore geopolitico di caratura mondiale e acquista più peso a livello internazionale. Per citare un paio di esempi, sono brasiliani il direttore generale della OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), Roberto Azevedo, e quello della FAO, Roberto da Silva. Il Brasile fa parte dei paesi emergenti inclusi nella fantomatica sigla “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), organizzerà le Olimpiadi nel 2016 e i Mondiali di calcio l’anno prossimo, dopo aver già realizzato l’anno scorso la Conferenza ONU Rio +20 sull’ambiente. Ma non è tutto oro quel che luccica.
Undici giorni consecutivi di proteste, un crescendo di partecipazione popolare attivata dai social network, che riproducono lo slogan “Brasile, svegliati!”, convertito in hashtag e trending topic su twitter nel giro di poche ore, stanno lì a ricordare al mondo, ipnotizzato dalla Confederation Cup che sta per arrivare alla fase finale, che questo è anche il paese delle enormi disuguaglianze socio-economiche, tra le più grandi in America Latina, della corruzione, degli sprechi per il mondiale e dello sviluppo incompiuto. La crescita economica s’è quasi fermata per un paio d’anni passando a tassi europei (da declino o quasi) del 2,7% nel 2011 e dello 0,9% l’anno scorso, mentre l’inflazione è cresciuta fino al 6,5%.
L’alto costo della vita, che è semplicemente proibitivo per la maggior parte della popolazione, almeno nelle grandi città, e l’imposizione fiscale, tra le più alte in America Latina, farebbero pensare ad un paese che sta toccando le vette del tanto agognato “sviluppo” economico e del cosiddetto “primo mondo” (dove appunto tasse e costo della vita sono alti), ma la realtà è un’altra. I segni esteriori e i dati economici di un “paese sviluppato” (o in via di sviluppo) non sempre corrispondono alla situazione della vita reale né alla totalità della sua gente. Affianco alla nuova classe media salariata, sempre più appiattita su standard e modelli di vita estremamente consumistici, esistono masse popolari che dalle favelas alle periferie, dalle regioni amazzoniche al Nordest, storicamente più arretrate rispetto al Sud e all’asse Rio-San Paolo, non sono ancora riuscite a fare “il grande salto” e probabilmente dovranno attendere qualche decennio in più per farlo (se mai succederà). Il modello della potenza regionale che aspira ad essere un “global player” e proietta un’immagine nazionale positiva e amichevole al resto del mondo comincia a scricchiolare proprio in questi giorni in cui l’attenzione dei media avvia la sua fase ascendente per colpa della, o grazie alla, Confederation Cup.
Proprio il 22 giugno si gioca Italia-Brasile a Salvador de Bahia e sono annunciate nuove mobilitazioni, mentre la preparazione per i mondiali del 2014 rende irrequieta, anzi arrabbiata, la popolazione che vede fluttuare le spese per gli stadi e le infrastrutture mentre aumentano gli sfollati e i senza tetto, pagati una miseria per abbandonare le loro case site nei pressi dei nuovi megaprogetti, e s’abbassano la qualità e la copertura della sanità e del sistema educativo. Questi sono alcuni altri motivi che hanno spinto migliaia di persone a scendere in piazza. Un’altra delle richieste della popolazione “indignata” riguarda la trasparenza nella gestione dei circa 13 miliardi di dollari investiti dal governo per i mondiali e le Olimpiadi e i freni contro la corruzione. “Meno circo e più pane”, chiedono i manifestanti. Gli aumenti nei prezzi dei biglietti sono stati revocati, ma le proteste continuano.
Secondo uno studio (da prendere con le pinze ma almeno indicativo) citato dalla stampa brasiliana e portoghese nei giorni scorsi, l’84% dei manifestanti non dichiara simpatie di partito, il 71% partecipa per la prima volta a una protesta di piazza e più della metà ha meno di 25 anni. L’81% delle persone han saputo delle iniziative attraverso Facebook. Dal 1992, quando venne contestata la presidenza di Fernando Collor de Mello, non si vedevano manifestazioni così imponenti nelle metropoli brasiliane e queste sono le prime che vengono convocate prevalentemente tramite le reti sociali. L’origine viene dalle mobilitazioni convocate dal movimento contro l’aumento del costo dei trasporti pubblici (Movimiento Pase Libre), ma la continuazione e gli sviluppi delle manifestazioni passano dalle reti sociali e dall’estensione della protesta ad altri settori, in genere non rappresentati a livello istituzionale e appunto convocati spontaneamente per le strade.
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