sabato 24 ottobre 2015

Berlinguer, ha vinto o è stato sconfitto?

Enrico Berlinguer alla Festa nazionale de l'Unità a Ferrara, nel 1985

di Biagio De Giovanni (l'Unità, 20 ottobre 2015)

Il segretario del Pci, dalla sincera coscienza democratica ma non liberale, è un simbolo per tantissimi italiani

1. Non è facile aprire un dibattito su Enrico Berlinguer. Per provare a farlo, bisogna attraversare diversi strati della sua personalità, non è possibile identificarlo solo con la funzione politica che ha avuto nella società italiana e come segretario del PCI, anche se è naturalmente ad essa che bisognerà dedicare l’attenzione principale. Resterebbero fuori dei tratti personali molto suoi, e i conti potrebbero non tornare nella definizione stessa di un giudizio politico e soprattutto nel comprendere certe ragioni delle sue scelte. Basti pensare al fatto che nessun altro dirigente del vecchio Pci (che pure ne ha avuti tanti, e carismatici, a cominciare dallo stesso Togliatti) ha potuto conquistare una
dimensione “universale” nella coscienza degli italiani, come quella consolidatasi intorno a Berlinguer. L’immagine conta, e alla indicata dimensione ha contribuito anzitutto l’espressività e il “taglio” del suo volto, scevro da ogni prolissità, un volto intagliato, collocato su un corpo esile, il tutto capace di restituire la realtà – filtrata attraverso l’immagine – di un asceta politico (quale ossimoro!), una persona che appariva protesa a caricarsi dei dolori e delle sofferenze del mondo, e magari a cercare di darvi risposta, mi verrebbe da dire, con tutto se stesso. Era, questo velocemente descritto, un tratto austero (parola fatale, vedremo) che Berlinguer riusciva ad addolcire con una vena di ironia che qualche volta sembrava rivolta anche su se stesso, e quell’aspetto esile e un po’ sofferente si risolveva, per gli altri, in una personalità certo introversa e magari un po’ cupa, ma intima, familiare, addolcita; unico, in questo senso, tra i “grandi” del PCI. Per accennare a un solo confronto, Togliatti era carismatico ma lontano; la piccola figura di Berlinguer è entrata nell’immaginario di milioni di italiani (molti niente affatto “comunisti”) per una sorta di rispetto affettuoso cui la sua sola persona spingeva, e nessuno si sorprese quando Roberto Benigni lo prese tra le braccia e lo tenne per qualche istante sollevato da terra. Amendola per la stazza fisica, ma non certo solo per questo, Togliatti per l’effetto… reverenziale che ispirava, non avrebbero potuto incoraggiare un simile abbraccio.

2. È un avvio un po’ da lontano, ma forse meno di quanto può sembrare, e su questi suoi tratti personali si può ancora restare un momento, per constatare quanto la sua comunicazione politica fosse come avvolta da essi, e in essi risolta: una comunicazione scarna, severa, senza un filo di retorica, la politica sempre guardata sul crinale che la unisce e la distingue dall’etica. Ed appare quasi come qualcosa di segnato da un destino la sua fine, a Padova, in quel 1984, quando la lingua incominciò a incespicare nel momento in cui, a conclusione del suo comizio, salutava i “compagni” invitandoli all’ultimo sforzo. Tutto questo lasciava pensare a qualcosa di assai lontano dal temperamento prevalente nelle personalità politiche italiane, dava il senso di una politica che sgorgava non da se stessa, – né da una scelta iperrealista né da un scelta, per dir così, di pura filosofia della storia – quanto da una ispirazione etica. Come se le sue radici (e quelle in cui si incardinava la scelta di Berlinguer) fossero da rinvenire prima che nei grandi scenari della storia, in alcune verità insite negli strati più elementari della vita sociale, a partire dalle vite travagliate dei contadini del Sulcis o degli operai di Mirafori. Ma, certo, questi contrasti e conflitti, che egli visse direttamente fin dalla prima giovinezza, lo spinsero a una radicalizzazione politica della critica, e a guardare ai grandi scenari del mondo. Insomma, dentro le risposte a queste realtà, partecipi di una umanità bistrattata, nasceva la necessità di guardare con una convinzione che è restata ferma fino all’ultimo, a “un’altra” società, prodotta da una vicenda che, all’origine, era nata, nel giudizio di Berlinguer, proprio per riportare gli esclusi sulla scena nella storia. Una forte vena etica era alla base di una scelta storico-politica, ma questa scelta storico-politica acquistò una sua autonomia, e condizionò tutto. Il 1917 aveva diviso la storia del mondo in un prima e in un dopo. Un punto fermo, da cui non si discostò mai.

3. Qui va messo in luce un elemento che vog lio esprimere con grande nettezza: Berlinguer fu fino all’ultimo un comunista convinto. Perfino più di Togliatti (se un tal paragone, così accennato, può reggere) la cui colta vena storicistica, e di realismo politico, gli faceva intravedere scenari più duttili e complessi: da un lato, Togliatti era un personaggio di gran rilevo della III Internazionale stalinista (più che “comunista”); dall’altro, aveva più il senso della complessità della cultura occidentale ed era più in grado di scorgere, forse, il senso di una crisi irreversibile del mondo comunista già negli ultimi anni della sua vita. Affermo questa tesi con piena convinzione: tutto quello che ho detto sulla compattezza del temperamento di Berlinguer, si trasferiva nella chiarezza e quasi semplicità di una scelta di campo, certo assillata negli ultimi anni da dubbi provenienti dalla sua sincera coscienza democratica, che non è mai stata, però, genuina coscienza liberale. E gli elementi che mi accingo a ricordare non furono mai tali da rimuovere quello che aveva acquisito come tratto fondante e quasi primordiale della sua scelta: stare dalla parte del “campo socialista”.

4. Chi la pensa diversamente può portare molti elementi in contrario: già nella seconda metà degli anni settanta Berlinguer espresse, a raffica, severe critiche all’assetto degli stati socialisti: forte richiamo all’autonomia delle scelte politiche del PCI; intervento al XXV Congresso del PCUS nel febbraio 1976, che gli valse, nell’accoglienza, un gelo inusuale; la celebre intervista sulla Nato, sempre del 1976; l’affermazione del valore universale della democrazia, e tanto altro che non avrei qui lo spazio per ricordare. Tutto assai importante per un capacità di innovazione e deve solo assistere al proprio declino. Rispetto a questa previsione assunta come orizzonte di tutto, andavano messe in campo le forze adeguate, e modulate le scelte possibili. Un capitalismo giunto “ai suoi confini”, ma tutto questo, però, va detto, alla vigilia della più grande rivoluzione capitalistica di tutti i tempi, qualunque giudizio di essa si voglia dare: un capitalismo capace di bruciare i propri stessi limiti e, con la rivoluzione tecnologica, di mutare gli assetti del mondo. Una lettura del capitalismo, quella berlingueriana, rinchiusa negli schemi più classici della tradizione comunista e che potrebbe sembrare singolarmente disattenta ad aspetti fondamentali dello stesso pensiero gramsciano, cui fu certo assai più sensibile Togliatti.

5. Non vuol esser impietoso questo contrasto, non ho intenzione di indurire questo aspetto della riflessione. Ma mantengo l’opinione che il suo intero tragitto (e le scelte di cui parlerò tra poco) fu segnato da quel formidabile condizionamento che lo spingeva a vedere la storia del mondo divisa definitivamente da un evento, e a mantenere, anche, su questa base, la durezza di una scelta etica prima ancora che politica, resistendo a qualsivoglia smentita o dura replica della storia. E qui aggiungo una riflessione, certo da discutere: chi sa se questo suo attaccamento duro e fermo alle origini, al 1917, per dirla in chiaro, non esprimesse la consapevolezza che il Pci, in ultima analisi, non poteva distaccarsi da quella data, sia pure rettamente interpretata, e che la rinuncia a quel rapporto avrebbe comportato anche la conclusione di una intera storia della sinistra italiana. E Berlinguer, allora, non ne vedeva affatto le ragioni incombenti, anzi!. La sua utopia, piuttosto, era di unire ciò che la storia del mondo aveva diviso, ma unire il mondo nella vittoria dell’ideale socialista. Molto anche del Berlinguer più “italiano” può esser letto in questa luce, a muovere dal “compromesso storico”.

6. Per le ragioni indicate, la sua battaglia politica “interna” alla storia del movimento operaio e socialista, si sviluppò su due fronti: contro le degenerazioni del sistema sovietico, con il costante richiamo all’idea di ritardi e insufficienze rispetto a un modello ideale, a una idea-forza che stava ben collocata nelle origini, onde il suo più volte confermato “leninismo”,anche se –certo- corretto, ma mai oltre un certo punto; contro le vedute del riformismo socialdemocratico, qualunque carattere esso assumesse che non fosse di tendenziale subalternità alla tradizione comunista. Quando Craxi vinse la battaglia all’interno del PSI, la cosa stimolò ancora più l’ostilità del segretario del PCI perché proprio le “origini” venivano sottoposte al più duro degli attacchi. Dunque un doppio fronte di lotta, contro le degenerazioni autoritarie sovietiche per una (utopica) visione democratico-comunista, la veduta che lo aveva portato, nel 1977, all’invenzione dell’eurocomunismo; contro il riformismo socialdemocratico, perchè la sua idea centrale fu sempre quella di oltrepassare i confini della democrazia liberale e-o socialista. Berlinguer era affascinato dall’idea di un’ultra-democrazia degli uguali, ma non dobbiamo per questo sottovalutare il suo realismo di dirigente politico, di segretario di un grande partito di massa, e la domanda è: il tessuto concreto delle sue proposte politiche in quale rapporto fu con questo atteggiamento di fondo?

7.  Qui si giunge a Berlinguer segretario politico di un partito di massa come il PCI, vivo nelle pieghe della società italiana, portatore di politica concreta, di partecipazione indiretta al governo dell’Italia, e bisogna prendere le misure per vedere come quel fondo essenziale da me posto al centro della sua scelta sia stato, o meno, alla base anche delle scelte politiche che di volta in volta venivano individuate, e qui ci vuole chiarezza. Quel fondo per me è decisivo, giocò sempre un ruolo prospettico, ma non settario, non da PCF per intendersi. Con Berlinguer, il PCI raggiunse il massimo dei consensi elettorali, perché? Come giocò la sua convinzione di fondo rispetto alle dinamiche politiche di una strategia concreta? Bisogna intanto dire che il temperamento di Berlinguer lo porrà sempre davanti a scelte che, nel loro fondo duro, partecipavano al travaglio storico della società italiana. Il rigorismo comunista di Berlinguer non voleva essere settario, minoritario. La proposta di compromesso storico – vera espressione della sua personalità – fu formulata, lo si sa bene, sull’onda della tragedia cilena, ma più ampiamente dell’irrompere del terrorismo in Italia, della confusione generazionale e politica post-1968, della crisi energetica, insomma di un momento di una storia, non solo italiana, che appariva sull’orlo di una grande crisi. Le cose vanno capite nel loro contesto. Ma pur comprese in quel contesto, esse non sembravano avere il futuro con sé. Si basavano su elementi essenzialmente conservativi delle grandi strutture, che allontanavano in un futuro lontano gli elementi di trasformazione critica che già attraversavano i partiti di massa e la società post-sessantotto, la sua volontà di liberazione, l’irruzione nuova dei diritti civili, lo sconvolgimento delle compattezze militanti, il tono di un nuovo liberalismo di massa, magari nascosto dall’iperideologismo di alcuni movimenti estremi. Sul terreno della politica generale, solo l’utopia di una democratizzazione “comunista” del sistema sovietico poteva lasciar immaginare una partecipazione normale del PCI al governo dell’Italia; solo una rappresentazione della compattezza valoriale del “mondo cattolico” poteva lasciar fantasticare un incontro sempre più avvolgente “con quei movimenti e tendenze di cattolici che, in numero crescente, si collocano nell’ambito del movimento dei lavoratori e si orientano in senso nettamente anticapitalistico e antiimperialistico”, sottolineature che intendevano già dare un tono all’incontro tra due mondi. E in ciò pesava l’oscillazione della lettura del “compromesso”, tra una intesa di base già in parte egemonizzata dai comunisti, e un accordo di governo con la Dc: un nodo mai sciolto e forse non scioglibile, dato il contesto culturale ambivalente in cui Berlinguer presentò la propria strategia. E data, forse, l’idea che il movimento comunista, essendo quello portatore del futuro, avrebbe avuto, prima o dopo, partita vinta, con una vittoria capace di incorporare il meglio dell’identità dell’avversario. Naturalmente, altro è guardare agli effetti immediati di quella proposta. Innegabilmente, essa contribuì alla difesa della democrazia italiana, e collocò il Pci in uno spazio politico che mai aveva guadagnato. E dir questo, non è dir poco. Ma guardando il tema con il distacco che oggi è possibile (e anche forse con quel senno del poi da cui pur bisogna provare a guardarsi) la mancanza di prospettiva strategica era un po’ nelle cose, e già si intravedevano, tra tante altre cose, le linee nuove che attraversavano il mondo cattolico e il suo rapporto con la politica.

8. Ancora: l’austerità enunciata da Berlinguer nel 1977, discorso dell’Eliseo. Evitiamo confronti, che pur sono stati svolti, con l’attualità. Non ci fermiamo alle assonanze, altrimenti il dominio delle mere parole rende tutto astratto. L’austerità proclamata all’Eliseo fu schiettamente anticapitalistica, contro l’irrompere della società dei consumi e degli individualismi connessi. E se metteva l’accento su temi che oggi certo ritornano, ciò non deve impedire di guardare alla sua ispirazione di allora ed ai suoi effetti in quel contesto: ispirazione che stava tutta, o quasi, nell’opposizione tra un tipo di società, secolarizzata e consumista, e l’immagine di una società regolata, che in quegli anni non poteva non somigliare a società che vivevano un’altra esperienza nell’altro capo di Europa. Oggi l’austerità, in tutt’altra chiave, è predicata soprattutto dalla destra di governo europea e dagli equilibri del capitale finanziario. Infine, la “questione morale”, che irruppe nel dibattito italiano con la celebre intervista a Repubblica, promossa da Eugenio Scalfari nel 1981. Anche qui si assiste ai rimpianti di molti che ricordano la sua capacità di anticipare una “questione”, chiamata per la prima volta con quel nome. È ben comprensibile che una diffusa sensibilità dica: Berlinguer vide giusto, vide l’irrompere della corruzione nei partiti, e la folgorò con parole di fuoco che (bisogna ricordarlo) lasciarono di stucco vecchi dirigenti di estrazione assai più togliattiana come Natta e Napolitano, il quale ultimo scese in campo proprio contro quello che apparve un potenziale sconvolgimento dello scenario politico, una sorta di ritirata dalla politica concreta. Sul tema, nessuno vuol negare a Berlinguer una capacità di visione e uno spericolato coraggio politico: è il riconoscimento della qualità di un leader. Ma riflettiamo un momento. Presentata così, in quegli anni, come critica ai partiti italiani (meno il PCI, diverso: gli altri, tutti o quasi, indicati come bande e clientele di potere, occupanti lo Stato) e con simultanei apprezzamenti delle riforme eseguite dal partito polacco, contribuì sia a interrompere il dialogo politico, sia a preparare le condizioni (mentali, direi) di sconvolgimenti radicali che, azzerando il sistema italiano, avrebbero spalancato le porte di un’altra storia, e quasi a una società senza partiti. Insomma, una critica impietosa, un tassello destinato ad accelerare inconsapevolmente la distruzione dei partiti di massa? E proprio da Berlinguer? Forse proprio così. Naturalmente, con l’aggiunta di eventi maturati nel fatale 1989, che egli non poteva prevedere.

9. Luci ed ombre dunque si intrecciano nell’azione di un uomo politico che resta nella storia d’Italia. Difficile fermare un punto di equilibrio. L’Italia gli deve molto negli anni dell’emergenza, sarebbe vano e stupido dimenticarlo, come certo vano è isolare le sue scelte dai contesti che, per un politico, sono ovviamente decisivi. Ma ho insistito sul fatto che una parte della sua personalità e della sua cultura erano vincolati a un mondo che si sarebbe velocemente dissolto, senza lasciar vera traccia di sé, e che negli anni ottanta era già visibilmente verso il suo epilogo. Mi riferisco al mondo del socialismo reale, ma non solo: anche la questione cattolica fu vista da Berlinguer quando già i suoi caratteri tradizionali si andavano oscurando, e questo non fu da lui inteso. Ma qui, c’è una continuità interna alla storia del PCI, da Togliatti a Berlinguer, l’ossessione per la questione cattolica, una continuità che impedì all’insieme di quel partito di immettere nella propria storia gli elementi più fecondi di un liberalismo laico; e a Berlinguer, in particolare, di sondare con convinzione non diffidente il rapporto politico con quell’altra parte della sinistra italiana che aveva dato inizio a un’altra storia, e che fu a sua volta indebolita dalle reciproche incomprensioni.

10. Quel mondo cui Berlinguer apparteneva, con profonda e serrata convinzione etico-politica, è scomparso dalla scena della storia. Ribadisco che il permanere di un legame con quel mondo non costituì una sorta di estremo ridotto berlingueriano, anche se lui lo teneva in piedi al di là di ogni avvertita coscienza delle sue degenerazioni, e lo riaffermava, più di altri, con un tono assertivo che non era di tutti. Era scolpito, quel mondo, nella storia stessa del PCI, dava il senso di una vicenda storica, di una scelta intorno alla quale milioni di uomini avevano speso la loro vita, affollandosi sulle linee di tensione e di divisione della storia del ‘900. Con la fine dell’Urss, giungeva al suo termine anche una sezione fondamentale della storia della sinistra italiana, e nessuna antica ed efficace rivendicazione di autonomia poteva sostituire la morte del padre. Per cui la sua scomparsa poteva solo essere affrontata con un nuovo inizio, che però, a mio giudizio, non è appartenuto alla storia del PD, e delle sue varie evoluzioni, dal 1992 in poi, giacché poteva essere interpretato solo da altre classi dirigenti e direi, letteralmente, da una nuova generazione. Finito quel mondo, la storia della sinistra italiana era destinata solo a una rifondazione, non a ricostruirsi attraverso la sintesi di due culture sconfitte, e da parte degli stessi uomini che di questa sconfitta erano stati i protagonisti. Oggi si sta lavorando in modo efficace su una discontinuità effettiva. Vedremo, siamo solo agli inizi.

11. Naturalmente, nessuna direzione politica che ha segnato un tempo, muore del tutto; come nessuna epoca scompare senza lasciar tracce di sé. Non si tratta oggi di bloccare la critica ai paradossi del capitalismo per il fallimento storico del comunismo; o di accettare il ritmo di diseguaglianze avanzanti; non si tratta di negare la crisi della pur vincente democrazia politica; di accogliere come liberatorio il dissolvimento delle idee politiche o, come si dice, delle ideologie. Il mondo, questa nuova grande Babele, ha bisogno di pensiero e di idee generali; si tratta di utilizzare sia strumenti nuovi sia strumenti ereditati, incorporati nel nostro tempo e nelle sue connessioni, e certo staccati dai contesti in cui nacquero. Da questo punto di vista, la morte del passato è sempre relativa, altrimenti il mondo rinascerebbe sempre dal nulla. Ma sappiamo che non è così, e questo vale anche per le persone che hanno dato un contributo sofferto alla storia, quale esso sia, e che solo per questo meritano ricordo e anche riconoscenza, proprio nel momento del distacco da loro e della critica.

Nessun commento: