lunedì 16 maggio 2016

NOTE CASOLANE - 1956, 60 anni fa ...le bombe del CRAL

Sono trascorsi 60 anni da quel 25 maggio 1956. Nelle pagine de "Il Senio" - nel 1989 - attraverso le testimonianze dei protagonisti, si ricostruisce la storia di quel giorno quando la polizia fece irruzione nel Cral e nel cinema, alla ricerca di un fantomatico "arsenale comunista".

Da Il Senio – novembre 1989 - n. 44
A cura di Giorgio Sagrini


Mi trovo da Fava, un pomeriggio di settembre, e parlando del più e del meno il discorso cade sulla vecchia fontana tra via Soglia e via Roma, che era stata demolita pochi giorni prima per fare spazio ad alcuni posti macchina e al nuovo marciapiede in porfido.
«Quanti ricordi quella fontana! – mi dice Luisa Ricciardelli, che stava seduta accanto al marito, Giovanni Fava, in una pausa del lavoro - …La inaugurammo proprio nel 1956, l’anno delle “bombe nel Cral”, e lì ci ritrovammo, socialisti e comunisti, per festeggiare la riconquista del Comune che i democristiani tentarono in ogni modo di portarci via».
«Ma quali “bombe del Cral”?!» chiedo io con una certa curiosità.
E così, Luisa e suo marito Giovanni, che all’epoca era segretario della Sezione socialista di Casola, mi raccontano di quello che accadde in quel mese di maggio di 33 anni fa, due giorni prima delle elezioni comunali. Poliziotti che sfasciano il cinema e scaraventano fuori sedie e suppellettili, prendono a picconate il pavimento della platea del cinema, e tirano via le tavole di legno del pavimento della galleria, alla ricerca di un fantomatico “arsenale comunista” e mi raccontano delle intimidazioni, degli interrogatori e degli arresti che ne seguirono.
«Lo scopo di tutto questo – afferma Luisa – era montare una provocazione che a ridosso del voto amministrativo portasse alla sconfitta dei “social-comunisti” che dal 1946 amministravano il Comune di Casola».
Ho chiesto allora a Luisa e Giovanni Fava a chi ancora avrei potuto rivolgermi per avere altre informazioni e ricostruire i fatti di quei giorni; fatti che – è bene ricordarlo – appartengono a un’epoca di repressione politica contro la sinistra da parte dei Governi centristi a guida democristiana, della quale si sa poco e – non si sa quanto in maniera interessata – si preferisce parlare poco.
Mi sono quindi rivolto ad Aurelio Ricciardelli, che era Segretario della Sezione comunista, a Pietro Tabanelli, che era l’operatore del cinema, a Gino Gentilini, che all’epoca lavorava all’INCA-CGIL, a Giacomo Sangiorgi e ad altri che vissero quegli avvenimenti.
Ma vediamo prima quali erano e qual era la consistenza delle forze in campo in quella campagna elettorale amministrativa del maggio 1956. Il voto era previsto per il 27 e 28 maggio, e oltre che per il Comune si votava anche per il Consiglio provinciale (le Regioni non esistevano ancora; nasceranno solo nel 1970, con 22 anni di ritardo rispetto a quanto previsto dalla Costituzione).
Il Partito Comunista e il Partito Socialista presentavano una lista comune, con capolista il Sindaco uscente Domenico Fiorentini (P.C.I.).
Anche i Partiti di centro, Democrazia Cristiana, Partito Socialdemocratico e Partito Repubblicano, si coalizzarono in un’unica lista.
Ma non erano elezioni come le altre. I rapporti di forza tra i due schieramenti erano tali da consentire alle forze di centro, e in particolare alla Democrazia Cristiana, di vincere il Comune.
La D.C. infatti, proprio in quegli anni, era riuscita a diventare a Casola il primo partito, raggiungendo nel 1953 il 34,6% (il P.C.I aveva il 34,4% e il P.S.I. il 15,6%) e, insieme al P.R.I. e al P.S.D.I., si proponeva di scalzare la Giunta social-comunista.
«In quegli anni – racconta Aurelio Ricciardelliil Partito Comunista disponeva di una fortissima organizzazione. Era attivo anche il Partito Socialista, ma non aveva la struttura e l’organizzazione del P.C.I.. Il P.S.I. era presente soprattutto in paese mentre il P.C.I. aveva una fitta rete organizzativa in tutto il territorio comunale e nelle campagne, allora ancora densamente abitate». «La nostra sede – prosegue Ricciardelli – era da Poggiali, in Via Soglia, mentre il Partito Socialista aveva una sede di sua proprietà nel Vicolo delle Rimesse, vicino a Via Matteotti.
Il Partito Comunista era organizzato in “cellule” sparse in tutto il territorio comunale e ogni cellula aveva un “capocellula”. Le cellule poi, erano suddivise in “gruppi” di 4/5 compagni, con un “capogruppo”.
Questa rete organizzativa, così capillare, ci permetteva di riscuotere ogni mese, e non una volta all’anno, i “bollini” del tesseramento da 5/10 lire che venivano applicati sulla tessera.
Questo lavoro veniva svolto dai “capigruppo” di ciascuna cellula. In questo modo non passava mese che non contattassimo tutti gli iscritti, che se ben ricordo erano quasi 500.
La partecipazione alle riunioni, nelle varie cellule, era massiccia: era quella, d’altra parte, l’unica occasione nella quale i compagni ricevevano delle informazioni.
Non esisteva la televisione e la radio non era diffusa perché la gran parte delle case di campagne era priva di energia elettrica. Noi, allora, prendevamo il giornale (ma non si poteva fare la diffusione dell’Unità perché era vietata e si rischiava una denuncia), lo leggevamo e una volta alla settimana si andava a fare queste riunioni per dare un resoconto di quanto stava succedendo e per parlare di politica.
Ricordo che per raggiungere Frassineta partivamo in due, nel primo pomeriggio; uno di fermava a Budrio e l’altro andava a Frassineta, per poi rientrare a casa non prima delle due/tre di notte. A Frassineta c’era una sala dove si ritrovavano solitamente 70/80 persone e dove c’era anche una rivendita di vino. Ma non era solo dal giornale che si ricevevano le informazioni.
Noi, che andavamo a tenere le riunioni nelle cellule, a nostra volta partecipavamo alle riunioni convocate in Federazione a Ravenna; ma soprattutto chi andava in Federazione era il Segretario.
Diversa era invece la struttura organizzativa del P.S.I., che pur avendo una consistente base elettorale aveva poco meno di 100 iscritti.
Nel 1946, infatti, il P.S.I. ottenne a Casola il 27% dei voti e il P.C.I. il 34,3%; il P.S.I. si indebolirà in seguito soprattutto a causa della scissione social-democratica del 1947
».
Si arriva così alla campagna elettorale della primavera del 1956, «una campagna che si svolse come tutte le campagne elettorali di allora», osserva Aurelio Ricciardelli.
«Venivano a darci una mano dei compagni inviati dalla Federazione del Partito e provenienti dalle zone più forti, facevamo riunioni di caseggiato, riunivamo le cellule, tenevamo dei comizi volanti, di sera, nelle varie frazioni e nelle parrocchie, parlando da un altoparlante sistemato sopra una macchina. Spesso non sapevamo chi ci ascoltava; si andava su un monte e, per esempio, si parlava a quelli di San Rufillo, la sera dopo si andava nella zona di Mongardino e si puntava l’altoparlante verso le case.
Poi facevamo i comizi in piazza ai quali partecipavano dalle 300 alle 500 persone. Ma soprattutto andavamo in tutte le case; passavamo di casa in casa e parlavamo con tutti, portando la propaganda elettorale due/tre volte in ogni casa.
Ma non era così solo in campagna elettorale; era questo il nostro modo di lavorare, di fare politica. E questo grazie alla rete delle cellule che, specialmente nelle zone più forti, riunivamo quasi tutte le settimane.
Nella zona di Trario, per esempio, operava una cellula che contava 100/105 iscritti; in quella zona, a Trario e Sommorio, ad eccezione del prete e delle tre/quattro famiglie di proprietari, erano praticamente tutti iscritti al Partito Comunista.
E la struttura organizzativa del P.C.I. funzionava senza disporre di “funzionari” ma solo facendo affidamento all’impegno volontario degli attivisti. Solo il Segretario della Sezione per uno, due mesi, durante le campagne elettorali, riceveva un compenso dal Partito
».
Un altro aspetto significativo e particolare di quella come delle altre campagne elettorali di quegli anni, era l’uso dei manifesti.
«Allora – racconta Ricciardelli – non c’erano limitazioni di nessun tipo per attaccare i manifesti.
Durante la campagna elettorale avevamo una squadra di 20 attacchini, che affiggevano manifesti su tutti i muri del paese. Tutte le case dove c’erano pareti utilizzabili venivano prese di mira, e i manifesti venivano attaccati dalle fondamenta fino al tetto, coprendo a volte anche le finestre.
Per lunghi anni il lavoro di affissione lo abbiamo fatto assieme, socialisti e comunisti
».
Ma vediamo com’era la propaganda degli “altri”, in particolare dei democristiani, i “forchettoni” come venivano definiti in quegli anni dai social-comunisti.
«Il loro modo di fare propaganda era praticamente lo stesso; era solo un po’ più nascosto. La D.C. si affidava soprattutto alle parrocchie: se noi avevamo le cellule e i capicellula, loro avevano le parrocchie e in ogni parrocchia c’era un prete che faceva politica.
Non dobbiamo dimenticare infatti che siamo negli anni della scomunica ai comunisti e ai socialisti. E oltre ai preti c’erano i cosiddetti “frati volanti”; frati che venivano mobilitati durante le campagne elettorali per fare infuocati comizi anticomunisti nelle piazze o dai balconi delle case di qualche democristiano. E così come venivano da fuori degli attivisti ad aiutarci, altrettanto succedeva nella Democrazia Cristiana. Nel 1956 l’inviato della D.C. provinciale a Casola per organizzare la campagna elettorale, era Pasqualino Perdinzani.
La campagna elettorale del 1956 si svolse dunque in maniera forse più tesa, vista la posta in gioco, ma sostanzialmente non dissimile dalle precedenti campagne: la stessa grande partecipazione popolare alla lotta politica, un forte scontro ideologico tra la sinistra e le forze governative egemonizzate dalla D.C.
Tutto cambia, invece, proprio l’ultimo giorno di campagna elettorale. Vediamo cosa successe quel venerdì 24 maggio 1956.
«Quel venerdì arrivano a Casola tre camion di questurini – dice Ricciardelli – senza che nessuno sapesse il perché. Vanno in caserma e ne prendono possesso, poi in forze entrano nel cinema dove, al piano superiore dietro la galleria, c’erano anche gli uffici della Camera del Lavoro e dell’INCA.
Segretario della Camera del Lavoro era Amleto Rossini e responsabile dell’INCA era Gino Gentilini, che in quelle ore era ancora nell’ufficio.
Come sono entrati nel cinema, i questurini hanno iniziato a rompere, a distruggere, buttando all’aria la platea e aprendo buchi a colpi di piccone nel pavimento. Ricordo che le sedie volavano fuori dalle porte laterali e dalle finestre
».
«Quel giorno – racconta Pietro Tabanelli, che era l’operatore del cinema – aspettavo la visita che periodicamente i pompieri facevano alla cabina del cinema ma a causa del fortissimo vento non andai nel Cral ma rimasi a casa per sistemare alcuni cipressi che avevo piantato vicino a casa mia. Diedi però incarico che mi venissero ad avvisare appena i pompieri fossero arrivati.
Nemmeno mezz’ora dopo, erano passate da poco le tre, vennero a chiamarmi che erano arrivati i pompieri. Quando arrivo vedo tre persone in divisa che, in lontananza, mi sembrano pompieri.
Mentre salivo la scala esterna che porta nella cabina di proiezione sentivo dei forti rumori provenire dalla galleria.
Entrai allora in galleria pensando che i pompieri fossero già lì a fare il loro sopralluogo. Ma non trovai i pompieri, bensì il commissario Scarambone che mi gridò: “Dove va lei!!”. Mi presentai, dissi che era l’operatore. “Operatore?! – disse – Mettilo dentro!!”.
E con un poliziotto di qua e uno di là mi accompagnano in caserma
».
«Davanti al Cral, fin da quando arrivarono i questurini – dice Aurelio Ricciardelli – c’era Pasqualino Perdinzani. Mi rivolsi a lui e gli chiesi se sapesse cosa stava succedendo.
“Ci sono le colombe della pace” mi rispose.
Mentre alcuni lavoravano alla distruzione del cinema, altri questurini iniziarono gli arresti. Arrestarono il Presidente del Circolo ENAL, Francesco Padovani e altri dirigenti dell’ENAL, Domenico Sangiorgi, Giovanni Farolfi, Pietro Tabanelli e Dardi Silvio
».
«Padovani Francesco non fu portato in caserma – dice Pietro Tabanelli – perché era costretto in casa per le conseguenze di un incidente stradale; era in lambretta e uscì di strada a Borgo Rivola. Quindi fu piantonato in casa dai carabinieri per due o tre giorni».
«Poi arrestarono Gino Gentilini – dice Aurelio Ricciardelli – mentre usciva dalla Camera del Lavoro, che non si era ancora accorto di niente».
«Ero rientrato alla Camera del Lavoro di ritorno da un giro per la campagna elettorale a Trario e avevo ancora gli stivali infangati» racconta Gino Gentilini. «Stavo uscendo con una pratica in mano che dovevo portare alla mamma di Peo Ricciardelli, ché era arrivata la risposta alla sua domanda di pensione. Quando arrivo in fondo alle scale mi si para davanti un poliziotto che mi dice: “E lei da dove viene?!”, “Vengo da sopra, dalla Camera del Lavoro”, risposi. “Portalo dentro!” disse subito a un suo collega senza farmi finire, e mi portarono in caserma senza alcuna spiegazione.
In caserma trovai Domenico Sangiorgi, Giovanni Farolfi e altri.
Di nuovo chiesi cosa stesse succedendo e un poliziotto disse solo: “Bombe, bombe!”
».
«Quando arrivai in caserma – dice Pietro Tabanelli – erano già stati arrestati Domenico Sangiorgi, Giovanni Farolfi, Agostino Vespignani. Chiesi a ‘Mengo’ cosa era successo e lui rispose che dicevano di avere trovato delle bombe nella galleria.
Poi, come già avevano fatto agli altri, anche a me tolsero la cinghia e i laccetti, e rimanemmo lì.
Alle nove di sera, subito dopo avere interrogato Vespignani che poi venne rilasciato, chiamarono me. Quando arrivai di sopra, nell’ufficio erano in due. Mi sedetti nella scrivania di fronte al commissario e mi indicarono due bombe tipo ananas appoggiate sul pavimento vicino al muro, sopra dei cartelloni da cinema.
“Ha visto che bei lavori che fa lei?” mi disse il commissario. Lo guardo e mi viene da sorridere. “Perché l’ho fatto io, quel lavoro?”, gli rispondo. “Sì, sì – fa lui – hanno detto che l’ha fatto lei”.
Nel frattempo si apre la porta e chiamano fuori il commissario. Come rientra, dopo poche parole, mi dice che posso andare. Quando esco passo dagli altri e gli faccio coraggio che uno alla volta ci avrebbero rilasciato tutti. Ma invece li caricarono sulla camionetta e li portarono a Ravenna.
Ricordo che in tutto quel frattempo c’era una grande confusione, gente che veniva e che andava, giornalisti come Manzini del ‘Resto del Carlino’ e altri, poi tante telefonate …un gran trambusto”
».
«Manzini del ‘Resto del Carlino’, che conoscevo di vista – ricorda Giacomo Sangiorgiera a Casola già all’una e mezza, prima che arrivasse la polizia. Io ero a bottega da Tabanelli e vidi Manzini in compagnia di Pasqualino Perdinzani. Ricordo che mi chiesi come facesse Manzini a essere a Casola, senza nessun motivo apparente.
Manzini riapparve dopo, sulle tre e un quarto, tre e mezzo quando arrivarono i camion e le camionette dei poliziotti. Quando Tabanelli andò in cabina, prima di essere arrestato, io andai da un’altra parte della galleria e assistetti a una scena significativa. I poliziotti staccavano le sedie con il paranchino e le scaraventavano di sotto in platea; di fronte a tanta distruzione il maresciallo Baldoni, che reggeva la caserma di Casola, si rivolse al commissario Scarambone per chiedergli che le sedie non venissero tolte in quel modo ma svitate. Ma il commissario non volle sentire ragioni e gli fece segno di allontanarsi, ché si sarebbero arrangiati loro!
».
«Dopo gli arresti – prosegue Ricciardelli – fecero chiudere il bar e mandarono tutti fuori.
Mentre svolgevano questo “lavoro” e quando ancora non riuscivamo a capire il perché di quanto stava accadendo, arrivarono i volantini della Democrazia Cristiana.
Ce li portarono alcuni compagni – uno di loro arrivava da Alfonsine – che vennero a Casola in automobile, per vedere cosa stava succedendo.
In questi volantini, diffusi nella mattinata, si diceva che a Casola era stato trovato un arsenale di armi dei comunisti, e il ritrovamento era avvenuto nel ‘circolo dei comunisti’: tutta la bassa Romagna, quando ancora i questurini nemmeno erano arrivati a Casola, venne inondata di questi volantini dove si sapeva “tutto” prima che accadesse!
».
«Anche a Solarolo – sostiene Giacomo Sangiorgi – i volantini vennero distribuiti la mattina, come ebbi modo di verificare la sera quando andai a fare il comizio in piazza per spiegare cosa sta effettivamente succedendo a Casola.
I volantini parlavano di bombe ritrovate nella Sezione del Partito Comunista, quando si sa bene che il Cral non era la Sezione del P.C.I. ma un luogo dove tutti entravano.
Durante il comizio a Solarolo feci delle accuse precise e il maresciallo dei carabinieri mi chiese nome e cognome perché avevo accusato la polizia di avere montato un caso
».
«Si dice che l’anticipata diffusione dei volantini rispetto l’inizio dell’operazione di polizia – afferma Gino Gentilini – sia dipesa dal ritardo con cui i camion dei questurini arrivarono a Casola a causa di una troppo prolungata chiusura di un passaggio a livello».
«Telefonammo subito a Ravenna, in Federazione, per avvertire di quanto stava accadendo» prosegue Aurelio Ricciardelli. «I carabinieri vennero anche in Sezione e mi accompagnarono in caserma. Qui in due mi interrogarono; mentre uno faceva domande – era il commissario Scarambone – l’altro insisteva dicendogli di lasciarmi andare. Era forse preoccupato del fatto che attorno alla caserma si erano già radunate alcune centinaia di persone.
Gli chiesi cosa avevano trovato e mi dissero che avevano ritrovato delle armi.
Ma in realtà non trovarono niente; dissero poi che avevano trovato un caricatore dietro al quadro di Di Vittorio nella Camera del Lavoro, e altri ancora dissero che era stato trovato un fantomatico “cartoccio” sotto il piano della galleria
».
«Di notte, era già l’una – racconta Gino Gentilini – ci caricarono su una camionetta per portarci a Ravenna. Con me c’erano Giovanni Farolfi e Domenico Sangiorgi.
Ricordo benissimo la gente, tantissima gente ancora per le strade che veniva spinta ai lati della strada per fare passare la camionetta.
A Ravenna ci separarono e al mattino, accompagnati da due poliziotti armati, ci portarono all’interrogatorio
».
«La finalità provocatoria di questa azione – afferma Aurelio Ricciardelli – fu chiara appena vedemmo i volantini che la D.C. aveva distribuito alla bassa.
Bisogna ricordare che in quegli anni, comunisti e socialisti, insieme ad altre forze democratiche, erano tra i principali animatori del movimento dei “Partigiani della Pace”, che sosteneva la lotta per il disarmo, contro il riarmo atomico, e che aveva come simbolo una colomba della pace.
I nostri avversari le fecero tutte per contrastare questo movimento, sostenendo che noi parlavamo sì di pace, ma in effetti preparavamo la rivoluzione e la guerra civile: “Non credete a loro – dicevano – perché le colombe della pace sono armate!”.
Ecco allora che in tutta Italia si moltiplicavano i ritrovamenti di “armi comuniste”; e anche a Casola, proprio durante la campagna elettorale, vennero a scoprire l’ennesimo arsenale dei comunisti!
A Casola ci mobilitammo subito; alcuni compagni e simpatizzanti raggiunsero i Comuni vicini per tenervi dei comizi, organizzati dal P.C.I., nei quali venne spiegato cosa effettivamente stava accadendo a Casola. Giacomo Sangiorgi, per esempio, che era un indipendente, fece il comizio a Solarolo, io invece mi fermai a Castelbolognese.
Erano le ore conclusive della campagna elettorale e per la serata era già convocato il comizio di chiusura in Piazza Oriani a Casola
».
«Anche la D.C. – secondo il ricordo di Gentilini – aveva convocato il comizio; doveva parlare Zaccagnini ma il comizio non si fece».
«Tra poliziotti e cittadini in Piazza Oriani con c’era più posto» dice Aurelio Ricciardelli. «La gente occupava tutta la piazza, dalla macelleria di Ricciardelli fino al palazzo Ungania e ancora ne arrivava. Tenne il comizio Gino Gatta, ex Sindaco di Ravenna, che infiammò la piazza con la sua oratoria.
In piazza c’era anche Perdinzani che chiedeva al commissario di fare smettere il comizio. “Ci vada lei a farli smettere”, gli rispose
».
Con il grande comizio di Piazza Oriani si chiude la campagna elettorale “ufficiale”. Ma la campagna anticomunista non finisce alla mezzanotte del venerdì; continua il giorno dopo sui quotidiani cosiddetti “indipendenti”, che danno grande rilievo al ritrovamento di chissà quale arsenale comunista a Casola.
«”La Nazione” di Firenze – dice Aurelio Ricciardelli – uscì il sabato mattina (ce ne inviò copia un compagno fiorentino) con l’annuncio del ritrovamento delle armi e accanto una fotografia con un camion carico di armi! Anche “Il Resto del Carlino” parlò di armi e di esplosivi ritrovati nel Cral di Casola».
«La fotografia pubblicata da “La Nazione” – dice Pietro Tabanelli – faceva vedere addirittura che sul camion veniva caricata una grossa mitragliatrice.
Nel retro del cinema, dietro allo schermo, c’era un sacco di mezzo quintale di sale, quello che si usava per le sorbettiere dei gelati. Ricordo bene che il giornale, il giorno dopo, riportava che erano stati ritrovati “50 chilogrammi di esplosivo non identificato”. Era sale! Io e Omero, infatti, andammo a vedere e il sale era stato rimosso e si vedeva che con le mani ne avevano prelevato un certo quantitativo
».
«La campagna elettorale era chiusa – prosegue Aurelio Ricciardelli – ma i compagni erano ancora tutti mobilitati, per spiegare, per parlare con la gente, perché si comprendesse cosa stava accadendo realmente.
Si andò così al voto, dal quale uscì vincente, in misura schiacciante, la lista social-comunista.
La provocazione delle “bombe del Cral” si rivelò dunque un’arma a doppio taglio per i suoi artefici, perché tutti i casolani si resero ben presto conto che si trattava di una montatura
».
Intanto gli arrestati trasferiti a Ravenna, ai quali si era aggiunto Silvio Dardi che fu arrestato sul lavoro al ponte della Cestina, vennero rilasciati e fecero ritorno a casa.
«Ci rilasciarono il lunedì pomeriggio – dice Gentilini – cosicché non potemmo votare; era la prima volta che potevo farlo e me lo impedirono in questo modo.
Andai in Federazione e mi feci prestare una giardinetta che avevo già guidato; in quegli anni facevo parte del Comitato federale della F.G.C.I. Salii in macchina e corsi a Casola, vestito come il giorno dell’arresto, con gli stessi stivali infangati, e quando arrivai seppi che avevamo riconquistato il Comune e che molti democristiani avevano negato il voto al loro Partito
».
«Alla notizia della vittoria, fu subito festa – racconta Duilio Sagrinie organizzammo una grande manifestazione lungo le vie del paese che si concluse con un comizio del Sindaco Fiorentini.
Ricordo che io e Torquato Visani andammo sulla torre dell’orologio e montammo la bandiera rossa sopra il tetto».

A cura di Giorgio Sagrini



Il volantino diffuso dal PCI denuncia la 'provocazione'

Il volantino diffuso dalla Camera del Lavoro CGIL parla di "bombe elettorali"

Così Lorenzo Bedeschi raccontava l'episodio delle "bombe del Cral" su L'Avvenire del 26 maggio 1956

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