Il contenuto della riforma costituzionale Boschi è coerente ed omogeneo?
Lo è se consideriamo la forte connessione fra trasformazione del Senato in camera delle autonomie e riforma del Titolo V. Le Regioni perdono sicuramente molte competenze, ma in compenso avranno voce al centro attraverso i consiglieri regionali che saranno eletti senatori. Né vale osservare che il Senato non legifera su questioni di competenza regionale. Intanto il Senato legifera a pari titolo con la Camera su tutte le questioni relative ai rapporti Stato-Regioni-Comuni che richiedono attuazione costituzionale. Per il resto, con la riforma le competenze legislative o sono dello Stato (e allora ha senso che legiferi la Camera solo con un potere di richiamo del Senato), oppure sono delle Regioni. Insomma non c’è ragione per dire che il contenuto della riforma sia incoerente.
Quali sono i fattori di criticità della riforma derivanti dal suo iter parlamentare?
La riforma è stata approvata in seconda deliberazione con la maggioranza assoluta dei membri di ciascuna Camera, che è una delle due ipotesi previste dall’art. 138 della Costituzione, e successivamente è stato proposto il referendum per la relativa approvazione come prevede, sempre in tale ipotesi, l’art. 138. D’altra parte la Corte costituzionale, nel dichiarare incostituzionale la legge elettorale sulla cui base erano stati eletti i parlamentari che hanno approvato la legge, non solo ha posticipato l’efficacia della propria sentenza alla fine della legislatura in corso, ma ha anche esplicitamente detto che, in base al principio costituzionale di continuità, le Camere restavano pienamente legittimate nello svolgimento delle loro funzioni.
Ci sono altri profili di contrasto tra la riforma e la sentenza n. 1 del 2014 della Corte?
Non pare proprio. Quando la Corte ha affermato che il voto dei cittadini “costituisce il principale strumento di manifestazione” della sovranità popolare, non ha voluto certo dire che non solo la Camera ma anche il Senato debbano essere eletti direttamente dai cittadini (senza contare che essi votano anche per il rinnovo dei Consigli regionali, comunali, dei membri italiani del Parlamento europeo, e ai referendum). Se lo avesse voluto dire, avrebbe considerato il bicameralismo paritario, che è appunto il tipo di bicameralismo in cui ambedue le Camere sono elette a suffragio universale (e quindi svolgono le stesse funzioni), come un principio supremo sottratto a revisione costituzionale. Non solo la Corte non lo ha detto, ma non lo ha mai detto nessun costituzionalista da quando è entrata in vigore la Costituzione (1948). A sostenerlo fu solo il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel messaggio inviato alle Camere nel 1991, nell’esplicito intento di promuovere l’indizione di un’Assemblea Costituente per approvare una nuova Costituzione. Le Camere non discussero quel messaggio, che fu sommerso da un coro di critiche dei maggiori costituzionalisti.
Perché l’elezione del Senato dovrebbe essere diretta?
La domanda ne chiama subito un’altra: quali funzioni potrebbe mai avere un Senato eletto a suffragio universale se non le stesse dell’altra Camera, eletta allo stesso modo? Evidentemente, le stesse. E noi infatti siamo andati avanti così dal 1948, con un Senato che conferisce la fiducia al Governo e approva le leggi allo stesso titolo della Camera. La domanda è dunque un’altra: vogliamo andare avanti così? Oppure riteniamo che il Senato possa essere meglio utilizzato per svolgere altre funzioni, trasformandolo in una camera rappresentativa delle autonomie?
Ma dai sostenitori della Riforma si sostiene che si tratterebbe di una elezione “indiretta”. Non hanno ragione?
Il nuovo testo dell’art. 57 prevede che i Consigli regionali eleggono i Senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i Sindaci dei Comuni dei rispettivi territori, aggiungendo che tale elezione avverrà “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”. Sarà la legge elettorale del Senato, se il referendum passerà, a stabilire come l’elezione da parte dei Consigli regionali si potrà combinare con le scelte degli elettori.
La riforma abolisce il Senato?
Sicuramente no, come risulta da tutto quello che abbiamo detto finora.
Quali perplessità suscita la riforma, a proposito del ruolo dei membri del “nuovo” Senato?
Tutti i Senati rappresentativi delle autonomie non danno la fiducia al Governo e partecipano alla legislazione solo sulle questioni più importanti, mentre svolgono funzioni di controllo connesse con il fatto che i Senatori rappresentano le autonomie. In questo il nuovo Senato italiano è complessivamente in linea con le esperienze di altri Paesi europei, che in generale hanno funzionato bene. Si può aggiungere che, in questo modo, le questioni dei rapporti fra Stato e autonomie non saranno più soltanto discusse al chiuso delle Conferenze intergovernative, ma in un’assemblea democratica, dove per definizione vige il principio di pubblicità. Questo aumenta il tasso di democraticità del nostro sistema, senza per questo abolire le Conferenze, che potranno continuare a svolgere le loro funzioni amministrative.
Perché criticare la riforma se, come sostenuto da alcuni suoi fautori, essa non fa altro che seguire l’esempio del Senato statunitense?
No, in realtà, come risposto alla precedente domanda, il nuovo Senato somiglia piuttosto a quelli di altri Stati europei.
E’ vero che i futuri senatori non percepiranno alcun emolumento e non saranno più dei “privilegiati” rispetto al resto dei cittadini?
Si, è vero che non percepiranno alcun emolumento. Godranno solo delle immunità parlamentari, quindi non potranno essere sindacati per i voti dati e le opinioni espresse e non potranno essere limitati nella loro libertà personale senza autorizzazione della Camera cui appartengono (art. 68 Cost.). Queste immunità proteggono i parlamentari in ragione della funzione che svolgono, non in ragione di un privilegio.
La riforma attribuisce poteri legislativi all’Esecutivo, cioè al Governo?
La riforma non attribuisce nuovi poteri legislativi al Governo, e casomai limita il ricorso ai decreti-legge, che attualmente sono una vera piaga anche perché il Governo, non avendo una “corsia preferenziale” in Parlamento per l’approvazione dei propri disegni di legge, ricorre ai decreti-legge anche al di fuori dei casi straordinari di necessità e di urgenza di cui parla la nostra Costituzione. Proprio per questo la riforma prevede che il Governo possa chiedere alla Camera di deliberare entro settanta giorni su un progetto ritenuto “essenziale per l’attuazione del programma di governo”. In questo modo la riforma fornisce una nuova opportunità di veder approvare un progetto “essenziale” in tempi certi, e nello stesso tempo limita il ricorso ai decreti-legge, tornando a far rispettare quello che dice la Costituzione.
E’ un merito o un demerito che la riforma preveda la riduzione del numero dei senatori da 315 a 100?
La riduzione del numero dei senatori tiene correttamente conto della diversa connotazione rappresentativa delle due Assemblee. Infatti, mentre i componenti della Camera continueranno a rappresentare l’intera Nazione, quelli del Senato rappresenteranno le istituzioni territoriali e proverranno, per la quasi totalità, dalle Regioni e dai Comuni. Dunque, vi è la necessità di assicurare che il rapporto numerico tra deputati e senatori risulti coerenti con la specifica posizione che nell’ordinamento costituzionale sarà assunto dal Senato in quanto luogo di rappresentanza delle istituzioni territoriali. E ciò appare ancor più giustificato tenuto conto che in talune occasioni i senatori parteciperanno, in pari posizione rispetto ai deputati, all’adozione di atti fondamentali dello Stato, quali l’approvazione delle leggi costituzionali, o all’elezione del Presidente della Repubblica. Su quest’ultimo punto, anzi, va sottolineato l’incremento del peso dei rappresentanti del decentramento territoriale complessivamente inteso: mentre attualmente partecipano all’elezione del Capo del Stato 58 “delegati” delle Regioni, dopo la riforma vi concorreranno 95 rappresentanti di Regioni e Comuni in qualità di senatori.
Ma la riforma snellisce il procedimento legislativo. O no?
Si deve premettere che al procedimento legislativo ordinario si affiancano attualmente, tra gli altri, il procedimento abbreviato, quello decentrato, quello redigente, quello per le leggi di bilancio, quello per le leggi di conversione dei decreti-legge, e quello per l’approvazione delle leggi di amnistia ed indulto. La pluralità dei procedimenti legislativi, dunque, è già presente nell’ordinamento, e non è una novità dovuta alla riforma. Inoltre, poiché la riforma introduce il bicameralismo differenziato, adottando una soluzione innovativa che, come noto, è quasi unanimemente condivisa, è necessario prevedere, al pari di quanto presente in qualunque vigente sistema a bicameralismo differenziato, che la formazione della legge segua procedimenti differenziati a seconda del diverso ruolo di volta in volta assegnato al Senato. Va aggiunto, poi, che, a differenza di quanto ora prescritto dalla Costituzione, la riforma prevede, dopo l’approvazione da parte della Camera, una tempistica precisa per ogni tipologia di procedimento legislativo, con termini massimi che non potranno essere derogati.
Qual è la posizione della riforma rispetto alle opposizioni parlamentari?
A differenza dell’attuale Costituzione, nella riforma si prescrive che i regolamenti parlamentari dovranno dettare apposite disposizioni per garantire i diritti delle minoranze parlamentari. Si aggiunge, inoltre, che nel regolamento della Camera dovrà essere contenuta un’apposita disciplina relativa allo “statuto delle opposizioni”. La tutela offerta, perciò, non sarà concentrata soltanto a favore della forza di opposizione più forte, ma riguarderà tutte le opposizioni. Tali vincoli costituzionali posti a salvaguardia delle minoranze dovranno essere rispettati dai regolamenti parlamentari, che dunque non potranno più contenere regole volte a comprimere arbitrariamente o comunque a discriminare le minoranze e le opposizioni. Inoltre, con riferimento al procedimento legislativo, nella riforma si prevede che nel Senato le minoranze (cioè un terzo dei componenti) – e dunque non la maggioranza – possano attivare la partecipazione del Senato stesso al procedimento di formazione delle leggi normalmente destinate alla sola approvazione da parte della Camera. Ed ancora un’ulteriore importante novità è costituita dalla facoltà attribuita alle minoranze parlamentari (un quarto dei componenti della Camera e un terzo del Senato) di chiedere il giudizio preventivo della Corte costituzionale sulla legittimità costituzionale delle leggi elettorali, sia per quelle relative al Senato che per quelle concernenti la Camera. E, con apposita disposizione transitoria, la riforma riconosce tale facoltà di appello diretto alla Corte costituzionale anche alle minoranze ora presenti in Parlamento nei confronti delle vigenti leggi elettorali.
Quale impatto ha la riforma sul rapporto Stato-Regioni?
Una profonda correzione di quanto introdotto nella Costituzione con la legge costituzione n. 3 del 2001 è da tutti considerata necessaria ed opportuna. Questo è il senso fondamentale di uno degli aspetti cruciali della riforma costituzionale: riportare al centro le decisioni essenziali per il governo dell’intera collettività, e mantenere in capo alle Regioni le scelte rilevanti per gli ambiti e gli interessi regionali. Si introduce poi, come richiesto dalla quasi unanimità dei commentatori, un’indispensabile clausola di salvaguardia degli interessi nazionali e dell’unità della Repubblica, che consentirà allo Stato, sulla base di parametri rigorosamente indicati, di provvedere con legge anche materie di competenza regionale. La confusa attribuzione di competenze legislative alle Regioni, la mancanza della predetta clausola di salvaguardia, e la cancellazione degli “interessi nazionali” dalla Costituzione erano stati i principali difetti della revisione costituzionale del 2001. Questi difetti sono corretti con la presente riforma.
E nelle materie di competenza legislativa dello Stato?
La riforma sopprime opportunamente la potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni, che non soltanto ha determinato numerosi contenziosi innanzi alla Corte costituzionale, con conseguenti condizioni di incertezza anche da parte dei cittadini, ma che è risultata spesso incoerente con la distribuzione delle competenze normative tra l’Unione europea e lo Stato. Inoltre si ridefiniscono e si ampliano gli ambiti di intervento della potestà legislativa esclusiva dello Stato con riferimento a materie che richiedono evidentemente un intervento unitario. A tal proposito, allo Stato è assegnato il compito di dettare le “disposizioni generali e comuni” in ambiti di particolare rilievo sociale, quali, ad esempio, la tutela della salute, le politiche sociali, l’istruzione, l’ordinamento scolastico, l’istruzione e la formazione professionale, le attività culturali, e il turismo. In virtù della competenza residuale che resterà sempre in capo alle Regioni, a queste ultime spetterà la necessaria potestà legislativa di attuazione e di specificazione, in modo da poter declinare le scelte unitarie dello Stato in relazione alle proprie esigenze connesse alla comunità ed al territorio regionali.
Quale sarebbe la posizione costituzionale del Premier grazie alla riforma Boschi e all’Italicum?
La tesi del “premierato assoluto” o dell’“uomo solo al comando” è infondata. La riforma non modifica nessuna disposizione costituzionale relativa al Presidente del consiglio, né in relazione alla nomina, né in ordine ai poteri, né tanto meno circa la posizione rispetto all’esercizio delle funzioni proprie del Presidente della Repubblica, che rimangono immutate. La disciplina dell’Italicum non incide sulla posizione costituzionale del Presidente del consiglio, né sul ruolo di garanzia che spetterà sempre al Capo dello Stato, in particolare in sede di formazione del Governo e dunque nel momento della nomina del Presidente del consiglio.
Come cambia la composizione della Corte costituzionale con la riforma?
Attribuendo al Senato l’elezione di due giudici costituzionali e riservando alla Camera dei deputati l’elezione dei restanti tre di provenienza parlamentare, la riforma introduce una forte novità che arricchisce il ruolo dei rappresentanti delle autonomie territoriali in relazione ad un passaggio cruciale nel concreto funzionamento della giustizia costituzionale. Soprattutto, frazionando l’elezione dei cinque giudici di provenienza parlamentare tra le due Assemblee, si è voluto tenere conto del mutato rapporto numerico tra Camera e Senato. Se si fosse mantenuta l’attuale elezione da parte del Parlamento in seduta comune, infatti, i predetti cinque giudici costituzionali sarebbero stati selezionati soltanto sulla base della volontà esclusiva dei componenti della Camere. La modifica introdotta, in ogni caso, non comporterà alcuna alterazione della vigente tripartizione delle fonti di nomina dei giudici costituzionali tra Presidente della Repubblica, supreme magistrature ordinarie ed amministrative, ed assemblee parlamentari. E’ poi evidente che non si introdurrà alcuna logica di carattere “corporativo”, dato che non mutano le condizioni soggettive di elettorato passivo.
E sui senatori a vita, la riforma cambia qualcosa?
La riforma cancella per il futuro i senatori a vita: i cinque di nomina presidenziale, che essi saranno nominati per sette anni e non potranno essere nuovamente nominati. Chi cessa dalla carica di Capo dello Stato, diventerà invece senatore di diritto, salvo rinuncia. Si è voluta così confermare la presenza dei senatori non elettivi, quelli di nomina presidenziale e gli ex-presidenti della Repubblica, introducendo il carattere temporale della carica assunta da quelli di nomina presidenziale, in tendenziale corrispondenza con la durata del mandato presidenziale. In tal modo si è inteso limitare soltanto agli ex-presidenti della Repubblica, proprio in ragione dell’altissimo incarico rivestito, l’esclusivo privilegio di godere di una carica a vita nel nostro ordinamento costituzionale. Considerato, poi, che il Senato sarà composto da altri 95 componenti selezionati dai Consigli regionali, l’inserimento dei cinque senatori non elettivi di nomina presidenziale non muta sostanzialmente il carattere del Senato quale organo di rappresentanza delle istituzioni territoriali.
Ma il Senato rappresenterebbe davvero le istituzioni territoriali?
Le modalità di determinazione dei componenti del Senato che sono previste dalla riforma faranno sì che saranno i Consigli regionali a stabilire chi farà parte del Senato. I membri del Senato saranno consiglieri regionali e sindaci, ne faranno parte sino a quando risulteranno in carica e saranno dunque sostituti quando scadranno dalle relative cariche nelle istituzioni territoriali. Dunque, il Senato, nell’esercizio di tutti i poteri e compiti che svolgerà in quanto organo dello Stato, sarà a pieno titolo un organo istituzionalmente rivolto a rappresentare le istituzioni territoriali rappresentate nel suo interno. Numerose disposizioni costituzionali relative all’organizzazione delle due Assemblee, poi, sono rivolte a differenziare la natura “politico-partitica” della rappresentanza parlamentare presente nella Camera dalla natura “politico-territoriale” della rappresentanza parlamentare presente nel Senato. I regolamenti delle due Assemblee tradurranno in concreto questa distinta natura rappresentativa.
Un’ultima domanda. Il Presidente del Consiglio cita spesso il pensiero di Giorgio La Pira, autorevole componente dell’Assemblea costituente, che in tale veste affermò che la Costituzione fosse la “casa comune” degli italiani. Ritiene che la riforma Boschi persegua lo stesso obiettivo di fare della Costituzione la “casa comune” degli italiani?
Se si volesse ritenere che la Costituzione non sarebbe più una “casa comune” qualora fosse modificata di una legge di revisione approvata senza il consenso delle opposizioni, si dovrebbe ritenere che anche la presente Costituzione non avrebbe più questo carattere, dato che anche la riforma del 2001 fu conclusivamente approvata a stretta maggioranza. I costituenti sono stati assai chiari sul punto: perché la Costituzione sia legittimamente modificata, occorre almeno la maggioranza assoluta nelle due ultime votazioni parlamentari, e, se non si raggiunge la maggioranza dei due terzi, è possibile ricorrere al voto popolare. In quest’ultimo caso, dunque, spetta al popolo decidere se la riforma possa essere considerata o meno la “casa comune” degli italiani
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