In occasione del 70° anniversario della Liberazione (1944-2014) di Casola Valsenio, pubblichiamo un'intervista tratta da IL SENIO, (dicembre 1984 – n. 19) in occasione del 40° anniversario.
Intervista a Giovanni Tabanelli, a cura di Giorgio Sagrini, pubblicata sul n. 19/dicembre 1984 del mensile "Il Senio".
Proseguendo la serie di articoli dedicata al 40° della Resistenza e della Liberazione della nostra vallata, abbiamo rivolto alcune domande a Giovanni Tabanelli, casolano, partigiano della 36^ Brigata Garibaldi “Alessandro Bianconcini”
IL SENIO
Quali furono le ragioni che 40 anni fa ti spinsero a entrare in Brigata?
Risposta:
La mia famiglia non era fascista e mio padre era stato picchiato dai fascisti.
Inoltre fin da ragazzo ho vissuto coi nonni, in campagna, lavorando come contadino e ciò mi ha aiutato a rimanere fuori da organizzazioni fasciste e dall’influenza della propaganda fascista.
Questa situazione, col passare degli anni, mi ha portato a maturare una coscienza antifascista. Ma il vero volto di quel regime ho cominciato a conoscerlo nel 1943 quando il Tribunale di Bologna mi citò mi citò in un provvedimento penale perché non avevo fatto la premilitare. Nel frattempo fui chiamato sotto le armi e questo mi consentì di evitare il processo.
Quando giunse l’8 settembre 1943, data dell’armistizio con l’esercito alleato, mi trovavo a Villa del Nevoso, nella Venezia Giulia.
Qui ebbi modo di venire in contatto con i primi nuclei partigiani che operavano fra l’Italia e la Jugoslavia, che ci incitavano alla lotta contro il nazifascismo. Fu questa situazione che mi aiutò a compiere la scelta della lotta partigiana.
IL SENIO
Come era strutturata la 36^ Brigata Garibaldi?
R.:
La 36^ Brigata Garibaldi, così come tutte le Brigate garibaldine, era divisa in compagnie, composte ciascuna da un numero variabile tra le 40 e le 60 unità. Ogni compagnia aveva il comandante e il vice-comandante, il commissario e il vice-commissario. Vi erano poi i capigruppo che comandavano squadre di 7/10 elementi. La 36^ Brigata Garibaldi, che operava nelle nostre zone e lungo la dorsale appenninica tosco-romagnola, contò fino a 1.200/1.300 uomini con 23/24 compagnie.
IL SENIO
Come era organizzata invece la vita della Brigata?
R.:
Fra i vari adempimenti quotidiani quello principale era costituito dal servizio di guardia di pattugliamento che, a turno, veniva svolto durante la giornata e durante la notte.
C’era anche, qualche volta, il tempo di svagarsi, sempre, come ovvio, relativamente alla situazione nella quale ci trovavamo di volta in volta.
La domenica poi, chi voleva, andava a Messa.
Un altro importante servizio era quello della cucina, che era curato da elementi che si dedicavano soprattutto al lavoro da cuoco.
Per quanto riguardava gli approvvigionamenti, questi spettavano al commissario, che disponeva dei soldi. Se i soldi non c’erano, chi ritirava gli approvvigionamenti rilasciava dei “buoni” che in gran parte furono pagati dopo la guerra.
Periodicamente, poi, si svolgeva la cosiddetta “ora politica” che era tenuta dal commissario Marabini, imolese, comunista di antica militanza che aveva combattuto in Spagna per la Repubblica contro i franchisti e i nazi-fascisti. Ma spesso, a tenere le lezioni, veniva Gino Monti, di Faenza.
In queste riunioni si discuteva, ci si abituava a confrontare le proprie opinioni, finalmente secondo regole democratiche. Parlavamo di una società nuova, che non avrebbe più conosciuto il fascismo; parlavamo di una società libera e giusta, fatta di uomini liberi e uguali, senza sfruttati né sfruttatori.
IL SENIO
Quale fu, a tuo parere, il contributo di Casola alla Resistenza?
R.:
Casola ha dato alla Resistenza un elevato numero di partigiani e di patrioti. Dei 152 partigiani e dei 52 patrioti, 14 sono stati i morti.
IL SENIO
Qual è la distinzione fra “partigiano” e “patriota”?
R.:
Questa è una distinzione che abbiamo usato dopo la guerra per indicare il diverso tipo di partecipazione alla Resistenza, secondo quelle che erano le esigenze della lotta partigiana. Non sono quindi distinzioni di merito ma di collocazione e di ruolo nella lotta contro i fascisti e i tedeschi.
Con la definizione di “patriota” ci si riferisce a coloro che, uomini e donne, hanno svolto compiti di collaborazione o di supporto all’attività della Brigata, come per esempio le staffette. Si indicano coloro che erano aggregati alla Brigata e hanno preso parte ad azioni di guerra o di sabotaggio.
Ad esempio voglio indicare gli elementi che facevano parte della S.A.P. (Squadra di Azione Partigiana) o del G.A.P. (Gruppo di Azione Patriottica) e che erano collegati o aggregati alla 28^ Brigata che operava in pianura o alla nostra Brigata, la 36^, che operava in montagna.
Questi della S.A.P. e del G.A.P. mantenevano i collegamenti con la Brigata e la informavano degli spostamenti delle truppe tedesche, così come, secondo gli ordini impartiti dalla Brigata, svolgevano compiti di sabotaggio. Alcuni di questi elementi, inoltre, per potere svolgere la loro delicata funzione e non destare sospetti, continuavano a vivere nelle loro case, a svolgere il proprio lavoro nei campi.
IL SENIO
Ma oltre a questo cosa hanno dato gli antifascisti casolani alla Resistenza?
R.:
Oltre che per le cose che dicevo, Casola ha contribuito molto alla Resistenza agevolando, favorendo il passaggio dal suo territorio degli approvvigionamenti necessari ai partigiani.
Gran parte degli approvvigionamenti doveva infatti passare, per forza, da Casola – grano, farina e carne – e occorreva una grande collaborazione per neutralizzare le spiate e le intercettazioni dei tedeschi e dei fascisti.
Molta, inoltre, fu l’ospitalità che i contadini, i mezzadri, ci offrirono quando la Brigata dopo gli scontri sul Carzolano si spostò nella zona di Appennino compresa fra Sommorio e Valdifusa.
E’ chiaro che se la Brigata riusciva a sopravvivere questo era dovuto soprattutto alla collaborazione dei contadini.
C’è da dire che un qualche aiuto ci venne anche dagli stessi agrari, che avevano ormai annusato la prossima sconfitta del fascismo ma, temendo una troppo radicale trasformazione della società, cercavano di guadagnarsi una piena legittimazione a prendere parte alle vicende politiche che si svilupperanno dopo la guerra, intendendo in tal modo fare dimenticare le loro responsabilità nell’avvento del fascismo.
IL SENIO
Quando avvenne il definitivo ingresso degli Alleati a Casola?
R.:
I tedeschi avevano lasciato Casola il 26 novembre 1944 ma sembrava che di questo gli Alleati non si fossero proprio accorti. Infatti continuarono il loro incessante cannoneggiamento su Casola e sulla piana di Valsenio come se nulla fosse cambiato.
Prendemmo dunque l’iniziativa di andare al Comando inglese che si trovava alle Cortine, fra Valmaggiore e monte Battaglia, per informarli dell’abbandono di Casola da parte dei tedeschi.
Avevamo però davanti a noi il timore di essere inviati in un campo di concentramento; sorte che toccava a tutti coloro che oltrepassavano la linea del fronte.
Il primo posto di blocco lo incontrammo al ponte della Cestina. Fummo ascoltati, perché riuscii a dimostrare la mia appartenenza alla 36^ Brigata Garibaldi, che aveva combattuto con gli Alleati a monte Battaglia.
Cercai di spiegare che a Casola non c’erano più tedeschi e fu così che ci fecero arrivare alle Cortine.
Con gli inglesi c’era un tenente italiano che ci fece da interprete. Spiegata la situazione si stabilì che il giorno dopo mi sarebbe stata consegnata una pattuglia di 50 soldati indiani, con i quali poi mi presentai in paese.
IL SENIO
Potresti raccontarci un episodio della guerra partigiana a cui hai preso parte?
R.:
Fra i tanti episodi vissuti in Brigata voglio ricordare la battaglia di Ca’ di Malanca agli inizi di ottobre del 1944. Fu una battaglia dura e sanguinosa e non posso certo dimenticare i nostri compagni che rimasero caduti in quelle giornate: Giorgio, vice comandante della mia compagnia con il quale ero sempre assieme; Sergio, il soldato sovietico che entrò in Brigata lo stesso giorno in cui vi entrai io…
Entrambi morirono a Ca’ di Malanca il 10 ottobre.
Ma se molti furono i morti, moltissimi furono i feriti. Fra questi vi erano due giovani di Casola. Io che ero loro compaesano mi ofrii di riportarli nella zona di Casola per poi avvertire le loro famiglie che li prendessero in cura. Uno era Mario, che rimase ferito a Ca’ di Malanca, e l’altro era Stefano che prese una pallottola in una gamba quando i tedeschi attaccarono la compagnia di Pino e incendiarono “Tradé”.
Ricordo che partimmo con due cavalli, da Cavina. Eravamo quasi disarmati, perché solo io avevo una rivoltella in tasca.
Attraversato il Sintria, arrivammo a Campoloro, nel Comune di Casola. Di qui Mario proseguì con il suo cavallo, mentre io mi fermai con Stefano, che era più grave.
Lo feci distendere nell’aia e chiesi al contadino se era possibile nasconderlo in qualche rifugio, per potere poi avvertire la famiglia a Casola che lo venisse a prendere. Mi misi a parlare con degli sfollati ai quali chiesi se nei dintorni vi fossero dei tedeschi. Questi non mi dissero nulla e pensai subito che qualcosa non andava.
Infatti, essendo voltato di spalle, non mi accorsi dei tedeschi che stavano arrivando. Mi voltai solo quando sentii una mano battermi sulla spalla. Fu una brutta sorpresa, ma riuscii a mantenere il sangue freddo. Il tedesco si era rivolto a me per chiedermi la strada per monte Mauro. Gliela indicai e vidi che i tedeschi rimasti più indietro erano una decina. Da loro si fece avanti un ufficiale che cominciò a urlare… “Tutti fermi! Documenti!”.
E mentre diceva questo si accorse del cavallo e del ferito. “Partigiani! Partigiani!” gridava rivolto agli altri soldati. Le donne rientrarono in casa e io, con molta calma, riuscii a girare dietro la casa pensando di nascondermi tra gli alberi. Ma non mi accorsi della ‘riva’ e precipitando riuscii a cavarmela per puro caso.
Si salvò pure Stefano, il ferito, che convinse i tedeschi di essersi procurato la ferita con una scheggia.
Il giorno dopo ritornai verso Cavina dove era in corso un feroce combattimento. Assistetti all’attacco di Purocelo ma purtroppo, nelle mie condizioni, potei fare ben poco. Andai quindi nuovamente a Cavina dove vennero portati e tenuti i feriti fino a quando non vedemmo che stavano tornando i tedeschi.
Tornai così nella zona di Casola con il compito di assistere gli sfollati. Da quella caduta a Campoloro mi sono procurato una invalidità permanente.
IL SENIO
Ora, tutti, indistintamente, riconoscono nella Resistenza e nella lotta partigiana, nei suoi principi e nei suoi ideali, l’origine della nostra Repubblica e della Costituzione. Ma nell’immediato dopoguerra, da parte delle forze che vollero la rottura dell’unità delle forze antifasciste, fu scatenata una dura persecuzione verso i partigiani e le loro organizzazioni.
Cosa puoi dire in proposito?
R.:
Negli anni dal 1947 al 1950 vi fu in Italia una vera e proprio ondata reazionaria contro la Resistenza.
Il Governo di allora, che chiamavamo “S.S.” dalle iniziali dei cognomi del ministro degli interni, il D.C. Mario Scelba e del vice-presidente del Consiglio, il socialdemocratico Giuseppe Saragat, puntava a mio parere alla criminalizzazione di tutta la Resistenza.
Si ebbero in quegli anni continui arresti di ex partigiani, e la repressione fu particolarmente dura in Emilia-Romagna e qui da noi.
Negli arresti dei partigiani si distinsero particolarmente il maresciallo Gau, che operava nel modenese e nel bolognese, e il maresciallo Doro, di Cotignola, che svolgeva la sua opera nel ravennate.
Gli arresti erano indiscriminati e a me capitò di essere arrestato perché ritenuto responsabile della fuga all’estero di alcuni ex partigiani attivamente ricercati.
Dopo l’arresto mi si accusò della scomparsa di due fascisti, mai più ritrovati, e su questo fu imbastito un processo. L’istruttoria del processo fu fatta dal giudice Scalini.
Per quell’istruttoria subii ben tre processi e scontai 26 mesi di carcere preventivo, fino all’assoluzione per non avere commesso il fatto. E per questa lunga e ingiusta carcerazione non vi è mai stata alcuna riparazione, né materiale né morale.
E questa sorte è toccata a molti altri; ognuno di noi pagò, sulla propria pelle, l’imperante clima di caccia alle streghe e restaurazione reazionaria.
IL SENIO
Cosa si può fare, oggi, per mantenere viva la conoscenza della Resistenza, dei suoi ideali, dei suoi principi di libertà, di democrazia, di progresso sociale e civile? Quale può essere il ruolo dell’A.N.P.I.?
R.:
La cosa non è facile ma penso che l’A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – n.d.r.) debba trovare il modo di aprirsi ai giovani.
Perché non pensare di reclutare giovani nella nostra associazione, cogliendo l’occasione offerta dal quarantennale della Liberazione? Dobbiamo mettere in piedi un programma di iniziative di divulgazione, di informazione sulla Resistenza e sui suoi ideali nelle scuole. Purtroppo la Resistenza ha sempre avuto nelle scuole una scarsa attenzione e a questa situazione occorre porre rimedio. La Resistenza deve uscire dalla emarginazione in cui taluni vogliono lasciarla, ma anche dai cerimoniali solo celebrativi che ne umilano gli ideali.
A cura di Giorgio Sagrini (novembre 1984)
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Testimonianza di Giovanni Tabanelli
L'incontro con gli Alleati
“Il giorno che seguì la distruzione dei ponti e del municipio di Casola mi portai da Cugna (dove mi ero rifugiato dopo che la 36a Brigata, di cui facevo parte, si era collegata agli alleati) fino in paese che continuava ad essere bombardato dagli alleati malgrado fosse stato evacuato dalle truppe tedesche. Qui incontrai Antonio Benericetti, membro del CLN locale, Imerio Turicchia ed Ermanno Bassani ed insieme decidemmo di raggiungere il comando alleato per far cessare l'inutile bombardamento che oltretutto causava morti e feriti tra la popolazione civile.
Partimmo nel pomeriggio senza avvertire altri delle nostre intenzioni ed anche senza precise indicazioni sul luogo sede del comando. Ci inerpicammo verso Belfiore superando alcuni campi minati mentre alcune scariche di artiglieria si abbattevano su Montefortino e Mezzomondo.
A Buta gli sfollati ci avvertirono che i civili trovati nella zona di prima linea venivano portati nei campi di concentramento alleati, ma proseguimmo fiduciosi nel fatto che la nostra posizione di ex partigiani e membri del CLN sarebbe pur contata qualcosa.
Da Buta raggiungemmo la Corte, quindi la Villa e poi il Mulino di Baffadi da cui, attraverso campi minati, ci portammo alla Cestina.
Qui incontrammo i primi soldati alleati: una compagnia indiana comandata da un capitano al quale riuscimmo a far capire che facevamo parte della brigata partigiana che aveva combattuto a Monte Battaglia (al che commentò: «buono partisàn») e che a Casola non c'erano più tedeschi. Il capitano rimase dubbioso in quanto ci spiegò nella notte precedente avevano catturato una pattuglia tedesca a Monte Scappa, ma poi ci mise a disposizione una guida per raggiungere il comando. Seguendo il filo del telefono arrivammo alle Cortine - sede del comando inglese - che stava facendo notte. Avvertimmo l'interprete - un tenente italiano - ed immediatamente il tiro delle artiglierie fu spostato verso la catena dei Gessi dove si erano appostati i nazisti.
Ci accordammo inoltre per l'invio di una pattuglia a perlustrare il paese. Il mattino seguente il tenente italiano ci prese in disparte e ci raccomandò di evitare assembramenti in paese, di non dare vino agli indiani e di aver sempre ben presente il fatto che per loro Casola era ancora territorio nemico.
Incuriositi da enormi cumuli di materiale bellico gli chiedemmo se significavano una sosta del fronte. Ci rispose che infatti l'avanzata su Casola era prevista per marzo dell'anno seguente: una vera disgrazia per i casolani, per il paese, per la campagna che si sarebbero venuti a trovare in un infernale corridoio. A dire il vero, da un punto di vista militare, la decisione degli inglesi era ineccepibile in quanto portandosi fino a Casola si sarebbero venuti a trovare sotto il tiro diretto delle batterie tedesche. Partimmo con circa cinquanta indiani al comando di un capitano pure indiano: io li precedevo mentre Bassani stava in coda (gli altri due avevano proseguito per Palazzuolo).
Rifacemmo la strada del giorno prima fino alla Corte dove alcuni sfollati del Cantone convinsero il comandante indiano (contro il mio parere) a passare per Mezzomondo in modo che per proseguire avremmo dovuto liberare i loro campi dalle mine.
A Mezzomondo gli artificieri si misero al lavoro con i loro strumenti, ma subito fu chiaro che le mine erano troppe così che il capitano ordinò di precederli a distanza verso il paese.
Confidando sulla fortuna e sull'ipotesi che i tedeschi non avessero minato il corridoio a ridosso del reticolato che risaliva il monte li guidai fino alla strada provinciale dove potemmo proseguire lungo il sentiero al centro che risultò sgombro da mine.
La notizia del nostro arrivo in paese si propagò in un baleno e già nel piazzale della chiesa si era radunata una piccola folla. Malgrado i miei avvertimenti i casolani si fecero pericolosamente vicini tanto che i soldati indiani li allontanarono gridando e puntando le armi, anche se in effetti intorno c'erano solo donne, vecchi e bambini.
Finalmente potemmo proseguire lungo la strada del muraglione fino alla piazza Oriani: i soldati procedevano guardinghi ai lati della strada con le armi puntate verso le finestre e riparandosi dietro gli angoli e le colonne dei portici mentre i bambini, al centro della strada, gridavano e facevano segno che non c'era pericolo, che i tedeschi se n'erano andati.
Una volta constatato che il paese era sgombro da forze nemiche, il capitano si acquartierò nel palazzo Ungania.
I rapporti con la popolazione civile si erano intanto fatti più cordiali e dopo il rancio prese corpo un piccolo commercio di sigarette, cioccolato e altri generi che mancavano da molti giorni in paese. Non furono però tollerati assembramenti e gli indiani non lasciarono cadere del tutto una certa aria di sospetto.
Nel primo pomeriggio accompagnai una pattuglia in perlustrazione fino al limite nord dell'abitato e al ritorno un soldato si intrufolò in una casa dove - secondo l'usanza romagnola - un vecchio gli offri del vino. Lo vedemmo uscire urlante e gesticolante e solo la minaccia di denunciarli al capitano li fece desistere dall'entrare tutti.
A sera la compagnia indiana abbandonò il paese e fece ritorno al comando ripercorrendo la strada del mattino e portando con sé due tedeschi che si erano dati prigionieri ad Aurelio Ricciardelli nei pressi del paese e che questi aveva rinchiuso in uno stalletto.
Qualche giorno dopo il comando alleato prese definitivamente sede a Casola”.
(Dal sito del Centro di Documentazione sulla Guerra di Liberazione di Casola Valsenio, http://cdglcv.blogspot.it )
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