venerdì 30 marzo 2018

Ora per il PD ascolto e condivisione

Monica Cirinnà (*) 

Quando si riflette su una sconfitta così dura, bisogna sapere da che punto partiamo e non cedere alla ricerca di capri espiatori

Se vogliamo riflettere a fondo sul risultato delle elezioni del 4 marzo dobbiamo parlarci con schiettezza e partire dai dati di fatto. Parto, quindi, in questo ragionamento dalla mia esperienza personale, da ciò che mi ha impegnata maggiormente in questa recente legislatura: la legge sulle unioni civili, patrimonio di tutto il Pd, è stata fortemente voluta dal nostro partito che si è battuto con coraggio per approvarla in Parlamento, nonostante avessimo “numeri non facili”.
E’ stata una maratona che nei primi 41 chilometri e 900 metri ho corso a tratti da sola e a tratti in compagnia, avendo sempre al mio fianco Sergio Lo Giudice e pochi altri colleghi; ma gli ultimi 100 metri li ha corsi con me Matteo Renzi, che ha avuto il coraggio di mettere la fiducia sul testo e, quindi, di portare a casa il risultato. E’ un’immagine che dice molto su quello che siamo stati, e su quello che vogliamo e dobbiamo essere.
Quando si riflette su una sconfitta dura come quella che abbiamo subito, bisogna innanzitutto sapere da che punto partiamo, e assumersi la propria responsabilità senza cedere alla ricerca di capri espiatori. Si vince insieme e si perde insieme.
Partiamo, quindi, dagli ottimi risultati di governo, la maggior parte dei quali sono riforme radicali di questo Paese, volute e sostenute da Matteo Renzi e dal governo da lui guidato, e sostenuto con convinzione da tutte e tutti noi. Lo dico da esponente della minoranza, non avendo sostenuto Matteo Renzi nell’ultimo congresso, perché ritenevo che guida del governo e guida del partito dovessero essere affidate a soggetti diversi.
Già allora, infatti, era molto chiaro che si stava delineando un forte distacco tra il Partito democratico e la sua base elettorale, alimentato anche dall’identificazione tra premier e segretario, che non garantiva al Partito la cura che meritava e che merita.
Se dovessi tornare indietro nel tempo, sottoscriverei ancora l’intervista fatta a L’Espresso, oltre un anno fa, nella quale sostenevo che Renzi era un buon capo del governo, ma un non altrettanto buon segretario del Pd. Oggi lo confermo. E non in chiave congressuale, che ancora non è aperta, ma perché stiamo riflettendo su una sconfitta che è stata durissima.
Abbiamo perso le qualità e le capacità che avevano fatto grande il Pd, fino a fargli raggiungere il 40%; abbiamo perso le caratteristiche di partito popolare e di sinistra che ci avevano portato a quel risultato. Eravamo la forza del cambiamento radicale, combattevamo l’immobilismo e l’establishment.
Penso, però, che Renzi segretario abbia avuto una scarsa attenzione al partito, gestito troppo spesso in modo personalistico. Ma esistono anche delle responsabilità collettive.
Innanzitutto, aver perso la capacità di ascolto. In secondo luogo, non apparire come un partito plurale. E infine, ed è la più importante, essere visti come un partito che non si occupa delle diseguaglianze, dei bisogni delle persone, della loro quotidianità e dell’impoverimento delle famiglie. Siamo apparsi come il partito di quelli che ce l’avevano fatta perché il Pil era in crescita.
Così come crescevano i posti di lavoro. Non abbiamo saputo ascoltare quella parte d’Italia che invece ancora soffriva, che è ancora scontenta e arrabbiata.
Due sono i punti fermi che ho tenuto in questi anni di attività parlamentare: in primo luogo, andare dove ero chiamata ad ascoltare, fare proposte, costruirle insieme alle persone, condividendo, e  praticando tre parole chiave, che il Pd deve riscoprire: ascolto, pluralismo, condivisione delle scelte e delle decisioni.
Un metodo che ha funzionato con la legge sulle unioni civili che avrebbe potuto essere una legge divisiva, ma che ora è rispettata e applicata da tutti. Questo perché l’abbiamo fatta conoscere e capire attraverso tante assemblee. Così, però, non è stato per tanti altri provvedimenti. Per esempio, la riforma del lavoro e quella della scuola, che hanno portato buoni risultati nel Paese, ma non sono state percepite come elementi positivi.
L’altro punto fermo riguarda la qualità e la quantità del pluralismo che noi dobbiamo garantire. Mi riferisco alla composizione e rappresentazione di posizioni diverse legate al nostro modo di vedere il mondo. Siamo una comunità plurale, ricca di diverse tradizioni ed esperienze politiche. Io, per esempio, provengo dai Verdi, ho una storia diversa. Continuerò per questo a sostenere che per ricostruire il Pd è necessario dare a tutte le nostre diversità interne lo stesso valore, considerandole come ricchezze.
Solo così potremo tornare ad essere un partito radicato nel territorio, che parla alle infinite periferie sociali, culturali, economiche di cui è composto il nostro Paese. I cittadini hanno punito il Pd dei potentati locali, delle correnti, delle aree armate l’una contro l’altra. Sciogliamo tutte le correnti (meglio: pratichiamo l’unità nella diversità), rigeneriamo questo partito con le idee e i progetti. Solo così potremo costruire insieme il futuro.

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Monica Cirinnà
E' senatrice del Partito Democratico. Si è laureata in legge alla Sapienza Università di Roma con una tesi in procedura penale, e per dieci anni è rimasta nell'ambiente universitario come assistente, abbandonandolo poi per dedicarsi alla politica. Il suo nome è legato alla cosiddetta "legge Cirinnà" di cui risulta prima firmataria, ovvero la legge 76/2016 sulla regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e la disciplina delle convivenze, presentata nell'ottobre 2015 e approvata nel maggio 2016 con l'appoggio di tutto il gruppo parlamentare del Partito Democratico.

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