domenica 16 agosto 2009
INNSE di Milano: una storia di operai, di lavoro, di impresa ...su cui riflettere
Della vertenza della Innse di Milano - con la clamorosa protesta degli operai abbarbicati per giorni su un carroponte a 12 metri da terra - hanno parlato tutti gli organi di informazione. La fabbrica rischiava di chiudere, con il licenziamento dei 49 operai. Tutto si è risolto con l'acquisizione dell'azienda da parte del Gruppo bresciano "Camozzi".
Pensiamo sia una vicenda emblematica che propone motivi di riflessione sul modo di intendere il lavoro e il ruolo dei lavoratori, e sul modo di intendere l'impresa e il ruolo dell'imprenditore, soprattutto in tempi di crisi e di recessione.
Questa è l'intervista di Laura Matteucci (l'Unità - 14 agosto 2009) a Attilio Camozzi, dopo l'accordo per l'acquisizione e il rilancio della Insse:
«Essere a posto con la mia coscienza era importante. È stato determinante nella decisione di acquistare l’azienda, è chiaro, e di farlo in fretta. Vedere gente anche di una certa età, col caldo che fa a Milano, stare giorni interi su un carroponte, è stato un fatto molto pietoso. Se c’avessi pensato ancora un po’, e qualcuno fosse scivolato da lassù, poi come avrei potuto perdonarmelo? Abbiamo fatto una proposta secca, ben definita. È andata». È andata bene. Attilio Camozzi, bergamasco di nascita (a Villongo nel 1937), bresciano d’adozione, tornitore fino ai 29 anni ed ex sindacalista della Fiom, oggi a capo dell’omonimo gruppo internazionale da oltre 300 milioni di fatturato, è l’uomo che ha rilevato per oltre 3 milioni la Innse di Milano con tutti i suoi 49 operai e i loro quattordici mesi di lotta, che intende investire parecchio altro denaro per rilanciarla e svilupparla, con il cuore a pneumatici, macchine utensili e tessile (quello che producono le altre sue aziende) e un occhio all’energia eolica. Un vero imprenditore, non per niente dal 2005 Cavaliere del Lavoro.
Allora hanno fatto bene gli operai a lottare in modo così tenace per difendere il loro posto di lavoro?
«Ma quella non era una lotta per il posto di lavoro. Era per mantenere in vita la Innse, perchè continuasse a produrre, e per farlo bisognava impedire che le macchine uscissero dai capannoni. Hanno salvaguardato l’azienda, e che rischiassero la vita per questo non era giusto. Ho molto rispetto per loro. L’emotività è stata una parte molto importante nella decisione. È chiaro che adesso la partita non posso giocarla da solo, dobbiamo farlo tutti insieme».
Insieme con i lavoratori?
«Con loro, certo. La nostra filosofia è creare, mettere a punto progetti congiunti. Il mondo è cambiato, non c’è più come una volta il padrone da una parte e i lavoratori dall’altra: per tutti, il padrone oggi è il mercato. E se il lavoro manca, manca per tutti, imprenditore ed operai».
A proposito, voi non risentite della crisi?
«Sì, anche noi abbiamo delle difficoltà, il momento è brutto. Ma bisogna saper vedere il bicchiere mezzo pieno, e andare avanti».
Com’è che da tornitori si diventa presidenti di un gruppo industriale?
«A Lumezzane (Brescia, ndr) dove vivevo io c’erano 20mila abitanti e 2mila aziende. Come dire, lo spirito dell’artigiano non mancava. Come tornitore ero bravo, ho cominciato a lavorare per conto terzi, nel 1964 mi sono messo in proprio. Siamo andati avanti. Sia chiaro: in 44 anni non abbiamo mai visto un dividendo».
Sta dicendo che non avete mai distribuito dividendi, ma reinvestito tutti gli utili in azienda?
«Esatto. Abbiamo mangiato, pranzo e cena, questo sì. Ma tutto il resto va alle aziende».
È cosciente di essere un esemplare raro di una razza quasi estinta, quella dell’imprenditore puro, che nulla ha a che fare con lo speculatore?
«Ma no, guardi che di bravi imprenditori in Italia ce ne sono tanti. Poi, questi speculatori... bisogna vedere i conti finali dove vanno a finire. Il segreto è quello che le dicevo prima: bisogna essere una realtà produttiva insieme con gli operai. Le persone, per poter crescere, vanno coinvolte. Noi a Brescia nella nostra azienda abbiamo una scuola di formazione per i giovani apprendisti che entrano, che dura anni. Si vince solo se c’è una squadra forte, ed è forte se è coesa. Anche la nostra famiglia, undici persone, è unita, siamo sempre tutti d’accordo, e questo è la base: dà coraggio, dà la forza di fare e di rischiare».
Una numerosa famiglia unita: anche questa è una rarità, non trova?
«Spesso le colpe dei padri ricadono sui figli. La preparazione delle nuove generazioni è importante. Da vecchi si diventa conservatori, è inevitabile. Bisogna saper fare il passaggio generazionale al momento giusto».
Attilio Camozzi l’ha fatto in tempo: l’amministratore delegato del gruppo, chi lo manda avanti dal punto di vista operativo, è suo figlio Ludovico. Ma la «testa», la guida e tutta l’esperienza sono ancora le sue.
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