venerdì 19 agosto 2011

Quanto ci costa l’evasione (…e quanto ci costa il malgoverno della destra)

Ovvero, gli effetti devastanti delle decisioni della destra quando nel 2008 smantellò i provvedimenti anti-evasione del ministro Visco

L’evasione fiscale non sente la crisi. Stando ai dati diffusi dalle principali fonti statistiche (Istat, Ocse, Banca d’Italia), l’Italia resta il paradiso per gli evasori, confermandosi un inferno fiscale per chi paga le tasse.



Lo "scudo fiscale"
Appena chiusa l’ultima sanatoria sui capitali illegalmente esportati, arriva da Banca d’Italia un dato inquietante: sono ancora oltre confine almeno 140 miliardi. La caverna di Alì Babà che il ministro voleva svuotare (così Giulio Tremonti definiva i tesori racchiusi nei forzieri off shore) si è subito riempita o molto probabilmente non si è mai svuotata. Dei 100 miliardi “regolarizzati”, solo 35 hanno effettivamente attraversato le frontiere un anno fa, come ha segnalato Bankitalia nel silenzio imbarazzato del Tesoro.
Il resto è rimasto all’estero, con l’impagabile vantaggio di essere stato “riciclato” dallo Stato. Ma l’infedeltà fiscale non riguarda certo soltanto chi riesce a trasbordare verso il Lussemburgo (paradiso numero uno per le società italiane) o la Svizzera (meta dei transfrontalieri).


L'evasione dell'IVA
L’Iva continua ad essere il “caso” nel “caso-Italia”, con un livello di evasione al 30% della base imponibile. Ogni tre euro incassati, uno non viene dichiarato ai fini Iva. In questo modo vengono sottratti alle casse dello Stato 30 miliardi l’anno: circa due punti di Pil. Basterebbe recuperarne la metà per cancellare tre quarti della manovra per l’anno prossimo. Via il contributo sull’Irpef, via il taglio dell’assistenza, via quello agli enti locali e ai ministeri.
Secondo un’analisi dell’Fmi (Fondo monetario internazionale) la perdita di gettito dell’imposta sul valore aggiunto dell’Italia è pari al doppio di quella tedesca o francese.
Il quadro è ben noto agli addetti ai lavori: fiscalisti, esperti economici e policy makers.

Il pacchetto antievasione del centrosinistra smantellato nel 2008 dal Governo Berlusconi
La guerra sull’evasione tra i due fronti politici è sempre stata feroce.
Quando Vincenzo Visco mise nero su bianco le sue misure, nel centrodestra cominciò una contraerea potentissima. Quella serie di interventi era studiata come una tenaglia che non lasciava scampo. Il “pacchetto” prevedeva un conto corrente dedicato per i professionisti (una sorta di libro contabile dell’attività), la tracciabilità dei pagamenti a partire da 500 euro, l’elenco clienti-fornitori per gli esercenti, la trasmissione telematica al fisco dei ricavi dei commercianti, il divieto di “girare” gli assegni, l’anagrafe dei conti correnti bancari, le fatture telematiche per le aziende che lavoravano per la pubblica amministrazione e infine qualche correzione degli studi di settore (valutare oltre al fatturato anche le spese). In Parlamento e sui giornali si scatenò l’inferno.

Si agitò lo spettro del “Grande Fratello” che si insinua nei conti correnti. Intanto però i contribuenti cominciarono a pagare: 20 miliardi di gettito in più al netto degli accertamenti in 18 mesi. L’Italia si avvicinava all’Europa, dove il fisco può chiedere alle banche i saldi dei conti a inizio e fine anno (Francia), rintracciando acquisti di yacht e fuoristrada, senza che nessuno reclami la privacy.
Imbracciando la bandiera della “libertà economica”, il duo Berlusconi-Tremonti ha demolito gran parte di questa impalcatura. Tutto azzerato il primo anno, salvo ripescare qua e là qualche mezza misura per fronteggiare l’emorragia di entrate. Come quella sulla cosiddetta tracciabilità a partire da 2.500 euro (nella vecchia manovra era 3.000), che non è affatto una misura antievasione ma solo antiriciclaggio. L’altra operazione di Tremonti è consistita nello stop alle compensazioni, e nell’allargamento dei casi di adesione e conciliazione. In questo modo le casse pubbliche non si sono svuotate, consentendo all’Agenzia delle Entrate di sfornare numeri trionfalistici. L’ultimo: 24 miliardi recuperati nel 2010. Tra questi, 10 a seguito di controlli e 6 per minori crediti d’imposta (il resto è per lo più emersione di contributi). In sostanza non ci sono misure che spingono a pagare regolarmente (tecnicamente: aumentare la tax compliance), ma solo operazioni che favoriscono il pagamento di una “multa” quando si viene pizzicati.
In questo modo si è scardinata l’arma più potente per sconfiggere il “male” italiano.
È chiaro che l’evasione c’è quando i redditi non sono tracciabili. Per avere successo, quindi, bisogna puntare a rendere sempre più tracciabili tutti i redditi, quelli da lavoro dipendente o autonomo, e quelli da rendite.
Il governo Berlusconi ha fatto molti passi indietro su questo fronte, utilizzando l’arma della trattativa e del concordato con chi è sotto accertamento. Una tattica che come al solito premia chi è furbo.
Eppure si potrebbe fare molto già da oggi, perché dell’evasione si sa molto.
Si conosce il suo ammontare (circa 120 miliardi l’anno, su una base imponibile di 300); la sua distribuzione territoriale a livello regionale e provinciale (l’evasione complessiva è più alta al Nord che al Sud, ma le imprese e i lavoratori evadono più a Sud). I tecnici conoscono l’incidenza rispetto alle diverse tipologie di reddito: è molto ridotta per i redditi da lavoro dipendente (3-4%); inesistente per le pensioni (ma presente presso i pensionati che hanno un’altra fonte di reddito, spesso in nero); ridotta nell’industria in senso stretto (5-7%), ma molto elevata nel settore delle costruzioni e ancora più in quello dei servizi. Tra i lavoratori indipendenti, i professionisti evadono di meno (33-35%) e gli imprenditori di più (50-60%).
A questo punto non servono più analisi, ma scelte politiche.

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