martedì 10 gennaio 2012

Ecco quanto rende la Tobin tax (e perché non piace a Londra...)

Nebbia di Londra e grandine di New York sulla cosiddetta Tobin Tax. Gli inglesi (e i loro cugini americani) vedono da sempre il prelievo sugli scambi finanziari come fumo negli occhi, e a guardare la struttura delle loro economie si capisce bene il perché. Di Tobin Tax si parla da circa 40 anni, e tutto questo tempo non è bastato ad ammorbidire il veto del mondo anglosassone e a vanificare qualsiasi tentativo. In fatto di tasse su scambi finanziari, basta un solo «niet» per bloccare l’operazione: se la tassa entrasse in vigore solo in una regione di un’area geografica, infatti, potrebbe provocare una fuga di capitali verso i Paesi che non la prevedono. Per questo un accordo globale è molto importante.
Oggi la partita entra nel vivo, dopo che la proposta - che occupa i primi posti del «manifesto» dei partiti progressisti a cui stanno lavorando Bersani, il francese Hollande e il tedesco Gabriel - nel settembre scorso ha avuto il placet anche della Commissione Barroso, che ne ha auspicato il varo dal 2014.
È stata proprio la finanza globale a causare la più grande crisi di tutti i tempi - argomentano i sostenitori - solo con questo prelievo si farebbe pagare il prezzo del contagio (e i relativi effetti sull’economia reale, dalla disoccupazione all’aumento delle diseguaglianze) ai veri responsabili. Anche stavolta, tuttavia, la Gran Bretagna si è chiamata fuori, in nome del suo assoluto primato mondiale nel settore finanziario. La City di Londra non solo ospita la più grande Borsa europea, ma costituisce anche il più grande mercato valutario al mondo e la più grande piazza di derivati, con ricavi che sfiorano i 1.400 miliardi di dollari al giorno, pari al 46% del totale generato a livello globale. Ogni giorno 288mila persone si spostano dai sobborghi verso il centro della metropoli per lavorare nel settore della finanza, che contribuisce al 10% del Pil inglese. Sono proprio i traders la spina dorsale dell’economia britannica, e loro sarebbero i più colpiti, soprattutto con il prelievo sui derivati, prodotti amatissimi da chi ama speculare in Borsa ma assai temuti dai semplici cittadini per il loro livello di rischio.
C’è da dire che la Gran Bretagna ha già una forma di prelievo sugli scambi finanziari analoga alla Tobin, e come lei anche Belgio, Cipro, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Polonia e Romania. Ora l’Unione punta a una tassa europea, uniforme sul territorio. Le aliquote minime indicate nella proposta sono dello 0,01% per le operazioni sui derivati e dello 0,1% sulle operazioni cosiddette «spot». Nel testo è previsto che saranno i singoli Stati membri ad applicare il prelievo e a fissarne le aliquote, che non potranno essere inferiori al livello minimo stabilito dalla Direttiva. Secondo Barroso il gettito in Europa arriverebbe a 57 miliardi l’anno, di cui ben 40 sarebbero generati soltanto a Londra. Ancora aperto è il tema della destinazione di queste risorse. Il duo Merkel-Sarkozy propone di destinare il gettito alla correzione dei debiti pubblici dei singoli Paesi. Per la Commissione una parte del gettito potrebbe entrare nel Bilancio comunitario come risorsa propria al più tardi a partire dal 2018.
Per il mondo della cooperazione le cifre potrebbero essere molto diverse. La campagna 0,05%, cioè l’aliquota che si imporrebbe ad ogni singola transazione, che si tratti di derivati o meno, stima un introito su base annuale pari a 655 miliardi di dollari a livello mondiale. Di questi circa 300 si reperirebbero nella sola Europa. Insomma, con un prelievo bassissimo si reperirebbero cifre notevoli. Anche se è probabile che il numero delle transazioni, soprattutto quelle «spot», potrebbe diminuire con l’introduzione del prelievo. Per questo qualsiasi cifra per il momento resta nel campo delle ipotesi. Resta il fatto che una folta pattuglia di forze sociali spinge per recuperare risorse dalla finanza, piuttosto che da pensioni e posti di lavoro, come sta accadendo oggi. Se poi passasse la linea di destinare le risorse non solo al rigore dei conti, ma anche allo sviluppo di infrastrutture europee, l’obiettivo di riequilibrare i sacrifici della crisi sarebbe centrato.

di Bianca Di Giovanni  (l’Unità, 9 gennaio 2012)

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