sabato 18 agosto 2012

Quando l’élite era De Gasperi

di Pierluigi Castagnetti, deputato PD (da Europa, 18 agosto 2012)

Mi chiedevo, accingendomi a scrivere questo nuovo ricordo di Alcide De Gasperi nel 58° anniversario della sua morte che ricorre proprio domani, se avesse ancora senso, in questo tempo di spread, di crisi finanziaria planetaria, interessarsi di una figura che si staglia oramai nel passato della storia della nostra repubblica. Poi, ricordando March Bloch nella sua Apologia della storia, mi sono convinto che ragionare sul passato non è vano perché attraverso ciò si riesce ad “afferrare il vivente”: «L’incomprensione del presente nasce inevitabilmente dall’ignoranza del passato. Non è dunque vano affaticarsi nel comprendere il passato, quando non si sa niente del presente».

E quindi, anche per me che non sono uno storico, ma che sono immerso nel fiume della quotidianità e del “vivente”, non è senza ragione ricordare il nostro passato più significativo e cercare di traslarlo, pur senza forzature, nel presente. Spendere parole sulle qualità morali e di statista di Alcide De Gasperi sarebbe quanto mai vano, essendo ormai patrimonio comune della nostra civiltà democratica. Eppure la sua vicenda politica, in special modo quella vissuta come presidente del consiglio di un’Italia in piena ricostruzione, ci riconsegna sempre suggestioni utili e utilizzabili in questo difficilissimo presente. Basterebbe ricordare il suo impegno negli anni ’50 per approntare una politica di ricostruzione economica e sociale del paese, stretto com’era all’interno del suo partito e nel paese fra opposte pressioni di chi gli chiedeva una ancora maggiore propensione alla spesa e agli investimenti, e chi invece teneva il piede sul freno avendo a cuore la stabilità monetaria: da un lato Fanfani e La Pira e dall’altro Pella e Merzagora. In sede di esposizione del programma del sesto governo da lui presieduto usò parole inequivoche su quelli che erano gli intenti del governo e le compatibilità che esso intendeva rispettare. Intervenendo ad esempio sulla composizione del Cir (Comitato interministeriale per la ricostruzione) a Montecitorio nella seduta del 31 gennaio 1950 disse: «Confido molto nell’esperienza (e) valentia di questi colleghi, che, coadiuvando i ministeri competenti per i dicasteri finanziari ed economici contribuiranno a quella direttiva concorde di governo che, partendo dalla necessaria stabilità della lira, farà ogni sforzo possibile per diminuire la disoccupazione ed aumentare la produttività». E rivolgendosi in particolare ai parlamentari che avevano partecipato ai precedenti governi, palesò anche lo sforzo personale, vissuto con particolare intensità, in quei giorni così difficili: «Per le stesse ragioni obiettive e disinteressate per le quali nonostante il naturale bisogno di riposo, io ho accettato di servire ancora da questo posto il nostro paese, essi hanno trasferito il loro servizio dall’esecutivo all’organo deliberativo, sempre animati dallo stesso senso di responsabilità e di patriottismo».
I lunghi anni di servizio ad un paese distrutto dalla guerra avevano infatti sfibrato l’uomo che aveva vissuto la sua esperienza senza mai risparmiarsi. Ma il suo impegno, come detto, non si attenuò mai, anzi, proprio in quegli anni il centrismo visse una stagione riformistica ancora più intensa: la riforma agraria, la riforma della Sila e la legge stralcio; la riforma fiscale voluta da Vanoni; la Cassa per il Mezzogiorno, le partecipazioni statali, il piano casa di Fanfani, la ricostruzione del tessuto industriale. Il tutto portato avanti con non poche difficoltà a causa della stretta vigilanza e del condizionamento oggettivo degli alleati occidentali. Ma su tutte queste realizzazioni, fu soprattutto l’“invenzione” dell’Europa, la unificazione in sede comunitaria della politica agricola e di quella energetica (la Ceca), e persino il tentativo – purtroppo non andato in porto – di unificare gli eserciti (la Ced), a connotare la sua cifra riformista.
De Gasperi intuiva che nel mondo nuovo che andava strutturandosi non si poteva più ragionare solo in termini nazionali. Occorreva dilatare l’orizzonte, abbandonare miopi provincialismi, osare l’avventura di una nuova sovranità politica comunitaria. Non erano quelli tempi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, eppure De Gasperi intuì la grandezza di un processo che, mentre avrebbe ancorato il futuro dell’Italia a quello dell’Occidente, avrebbe potuto strutturare economicamente e politicamente il continente europeo, chiamato dalle vicende della storia a trasformare la sua “potenza spirituale” in forza politica ed economica. Antevedere il cammino della storia e, insieme, orientarlo era per De Gasperi la vera missione della politica. Questa era la responsabilità della politica. Recentemente il presidente Monti ha ricordato un suo pensiero, noto non solo in Italia: «I politici guardano alle prossime elezioni, gli statisti alle prossime generazioni». Di più e di meglio non si può dire.
Sapremo oggi trasmettere alle nuove generazioni un messaggio altrettanto efficace, come classe dirigente nel suo complesso, politica e non solo, come élites, come intelligenza del paese? Carlo Galli nel suo ultimo studio sulle élites (I riluttanti, Laterza, Roma- Bari 2012) scrive: «Per far credere gli altri, le élites devono credere esse stesse in qualcosa, nella propria missione e nei propri valori; o almeno devono mentire con convinzione – che è esercizio quasi più difficile – a se stesse e all’intera società. Nell’accettazione della responsabilità e del rischio, nel compito di guidare – e quindi di elaborare cultura e discorso pubblico, e di affrontare critiche e proposte alternative – e di creare quindi uno spazio politico per sé e per la società intera, c’è la moralità della politica, dal punto di vista delle élites.
Immorale è, per contro, l’élite incolta, inconsapevole, attenta solo ai propri privilegi e politicamente apatica. Riluttante, appunto».

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