di Laura Pennacchi (l'Unità, 5 giugno 2013)
In molti invitano il PD a riconoscersi nel crociano «perché non possiamo non dirci liberali», riconfermando il debito culturale nei confronti di Benedetto Croce e di Luigi Einaudi.
Perché non possiamo non dirci democratici. Poiché il PD va verso un congresso auspicabilmente rifondativo della propria complessiva identità - Chiamparino, ad esempio, ha già dichiarato di voler riproporre per il PD un modello tardoblairiano «lib-lab» - è bene non sorvolare su tale questione. Anche perché essa è collegata a un equivoco di fondo, a mio parere mai adeguatamente chiarito e discusso, che ha presieduto alla stessa nascita del PD: la presupposizione tacita, cioè, che il Partito democratico dovesse essere sostanzialmente un partito «moderato», per questo travalicante l`asse destra/sinistra.
Un «moderatismo» - che intrinsecamente genera una propensione alle «larghe intese» piuttosto che alla sperimentazione dell'alternatività radicale - che spesso viene giustificato con ragioni storiche da non sottovalutare, quali la natura della destra nazionale e il suo peso nel corpo elettorale, così come le tendenze del Paese all'autoritarismo, le quali spingono taluni a pensare che l'Italia (Paese «irrimediabilmente di destra») possa essere governato solo dal «centro».
Personalmente non penso che l`aspirazione che oggi finalmente sta emergendo con nettezza a fare del PD un partito di sinistra - secondo l`esordio della memoria di Barca e come anche Veltroni ora dice chiaramente - vada declinata con la testa rivolta all`indietro, alla ricerca di un`impossibile prevalenza sulle altre di «una» delle grandi culture fondative del PD - la cultura socialista, quella cattolico-democratica, quella laico-liberale -, dovesse prevalere anche quella socialista, a cui sono molto affezionata. Penso, anzi, che il rilancio vitale dell`ispirazione originaria dell`Ulivo possa nascere da un lavoro culturale collettivo di evoluzione delle culture fondative, spinte a maturare - per rispondere alle inquietanti domande del mondo contemporaneo - lungo il crinale delle grandi eterodossie del pensiero democratico moderno collocate sulla frontiera dei drammi odierni, all`incrocio di ambiti disciplinari plurimi e problematiche variegate, da Keynes a Sen, da Rawls a Habermas. In questo senso la parola «democratico» mantiene intatti il suo valore e la sua attualità. Ma proprio per questo una elaborazione congressuale, che si voglia in libertà e verità come mai è accaduto finora, non può eludere una riflessione - non condotta adeguatamente fin qui - sui limiti costitutivi di ciascuna delle culture fondative.
Per quanto riguarda il PCI, da cui io provengo, è giunto il momento di discutere quanto anche la sua pur forte attitudine riformatrice sia stata segnata, oltre che da incoerenze pratiche, da ambivalenze teoriche. Da un lato, per quel che riguarda soprattutto le visioni di politica economica e sociale, storicamente la cultura del vecchio PCI è stata molto influenzata, per quanto paradossale ciò possa sembrare, da un hegelismo storicista e giustificazionista e dal liberalismo di Labriola, Croce, Einaudi. Un liberalismo che si è saldato con residui terzinternazionalisti «classisti» e «crollisti», poco atti a far cogliere il dinamismo e le trasformazioni sempre contenuti nei fenomeni economici e sociali (e poco attenti anche alla dimensione sociale intrinseca alla nascita e allo sviluppo dei welfare states verso cui gli eredi del PCI ebbero più di una diffidenza, considerandoli tentativi di «integrazione» della classe operaia). Tanto è vero che, a sinistra, le prime impostazioni innovative - con significativi germogli di quel keynesismo introdotto in Italia dal Partito d`azione, dai socialisti eterodossi, dalla Democrazia cristiana di sinistra - si colgono nella Cgil, prima con il Piano del Lavoro del 1949 e poi con l`elaborazione sul neocapitalismo dei primi anni '60 di cui non a caso furono protagonisti personaggi come Claudio Napoleoni e Bruno Trentin, formatosi in Giustizia e Libertà. E tanto è vero che la generalità degli eredi del PCI rimase estranea ai tentativi di programmazione - straordinari anche sotto il profilo dell`investimento culturale, se riguardati con la consapevolezza dei problemi e dei ritardi odierni - messi in atto con il primo centrosinistra e veicolati da Moro, La Malfa, Giolitti, Ruffolo, Lombardi.
Da un altro lato, in termini di cultura politica generale, per gli eredi del PCI il riferimento al «finalismo rivoluzionario», persistente nei decenni anche se solo come sfondo, finiva con l`esentare da quella ricostruzione analitica accurata che la articolazione di un quadro riformista richiede, in particolare per quanto riguarda una «teoria dello Stato» di cui i comunisti furono sempre carenti (nell`inconscio operava il pregiudizio secondo cui «lo Stato borghese si abbatte e non si cambia»). Ciò non impediva il proseguimento della straordinaria opera riformista nelle «regioni rosse», ma aveva non poche implicazioni sul profilo culturale nazionale, poiché, per esempio, la mancata articolazione di una cultura politica riformista autonoma non è senza relazione con quello che fu definito il consociativismo, un consociativismo che per lungo tempo ha reso possibile la coesistenza del «finalismo rivoluzionario» sul piano teorico e di pratiche compromissorie non sempre di alto livello sul piano fattuale.
E anche la delega di fatto che in materia di politica economica a un certo punto venne affidata ai prestigiosi intellettuali e studiosi della Sinistra Indipendente fu spesso solo un tamponamento dei rischi di subalternità che questa situazione creava piuttosto che l`espressione di una rinnovata, autonoma e originale creatività nel campo delle politiche economiche e sociali. Così si spiega perché l`ondata neoliberista che arrivò anche in Italia dalla metà degli anni 80 non trovò nemmeno nel PCI molti argini lungo il proprio cammino, venendo così alimentate quelle che nel centrosinistra più in generale furono, e sono rimaste, vere e proprie inerzie, timidezze, reticenze, subalternità, conformismi. L`ispirazione dell`Ulivo deve rinascere da un lavoro culturale collettivo lungo il crinale delle grandi eterodossie di pensiero Una elaborazione congressuale, che si voglia in libertà non può eludere una riflessione sui limiti di ciascuna delle culture fondative.
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