di Lorenzo Biondi (Europa, 4 giugno 2013)
No, non è (solo) una rivolta della Turchia laica contro l’islamista Erdogan. Se così fosse sarebbe impossibile spiegare una mobilitazione tanto ampia, che ha portato in piazza decine di migliaia di persone a Istanbul e in tutto il paese. Non solo la Turchia secolare e kemalista, ma uomini delle minoranze curda e alevita, donne col velo, elettori conservatori scandalizzati dalla brutalità della repressione.
Certo, molte delle persone scese in strada ce l’hanno con le nuove restrizioni sul consumo di alcool o con la riforma dell’istruzione approvata il mese scorso, accusata di rafforzare le scuole religiose imam hatip. Ma sono solo alcuni dei temi confluiti in una protesta nata su una vicenda “di quartiere” – la costruzione di un centro commerciale al posto di un parco pubblico – e sfociata nella più vasta mobilitazione anti-governativa del decennio erdoganiano.
C’è voluto qualche giorno, oltretutto, perché la protesta al parco Gezi radunasse consensi così vasti. Tra i politici, ad esempio, i primi a portare la loro solidarietà ai manifestanti “gasati” dalla polizia sono stati alcuni parlamentari del partito filo-curdo, il Partito della pace e della democrazia (Bdp). Gli uomini del Partito repubblicano – il Chp, la principale forza di opposizione, laicista e socialdemocratica – sono arrivati solo a partire dalla sera di venerdì, quando già la manifestazione aveva assunto una dimensione di massa.
È successo così che, negli stessi cortei, c’era chi sventolava le bandiere rosse con la mezzaluna, inneggiando al padre della Repubblica “laica” Kemal Ataturk, e tanti cittadini della minoranza curda, la cui esistenza è esplicitamente negata dalla costituzione di quella stessa Repubblica.
Questa trasversalità è la grande forza delle proteste di questi giorni, ma anche, forse, la sua principale debolezza. Le riforme promosse nell’arco di un decennio dal partito islamico-moderato (Akp) gli hanno guadagnato un consenso straordinario: non solo la liberalizzazione dell’economia, ma il primo vero tentativo di sottrarre la Turchia alla ingombrante tutela dell’esercito e del cosiddetto “stato profondo”. Dal 1960 al Duemila per quattro volte i militari sono intervenuti a stravolgere i risultati elettorali, che avevano premiato partiti più o meno apertamente “islamici”. C’è voluto il referendum costituzionale del 2010, una prova di forza cercata proprio da Erdogan, per far sì che i vertici dell’esercito fossero perseguibili per i crimini commessi durante i vari colpi di stato. Un trionfo consacrato dalla vittoria elettorale dell’Akp nel 2011.
Dopo quel successo, il primo ministro sembra aver perso molti freni inibitori. Il focus dei nuovi progetti di riforma costituzionale è diventato il presidenzialismo. L’orizzonte temporale dell’attività politica di Erdogan si è spostato al 2023, centenario della fondazione della Repubblica: una data che il leader dell’Akp pensa di raggiungere al compimento di vent’anni di potere ininterrotto. Anche sul fronte della politica estera, l’attivismo in Siria e l’abbandono della linea di “zero problemi coi vicini” hanno provocato forti malumori in ampi strati della società. Il tutto condito dalla convinzione, ripetuta in questi giorno dal premier, che il consenso elettorale consenta di calpestare (anche fisicamente) il dissenso.
Tra le persone scese in piazza c’è anche chi ha votato in favore della riforma costituzionale del 2010, o chi ha applaudito alla tregua coi guerriglieri del Pkk stipulata a marzo. Tutti uniti dalla repulsione per la svolta “autoritaria” del primo ministro e dalla richiesta di dimissioni.
È qui, però, che si scopre il principale vulnus della protesta. Quale alternativa al governo di Erdogan? Se i ceti medi conservatori e islamici si staccheranno dall’Akp, dove approderanno? Le diverse forze d’opposizione sono lontanissime l’una dall’altra e nessuna, da sola, pare in grado di impensierire lo strapotere elettorale dell’Akp. Erdogan lo sa e punta a una gestione tutta “interna” della crisi, magari di sponda col presidente della Repubblica Abdullah Gül, volto “dialogante” del partito di governo.
Senza un cambio di passo, però, la pressione della piazza non sembra destinata ad esaurirsi facilmente. Se Erdogan continua a tirare la corda, rischia di provocare reazioni che neppure lui sarà in grado di contenere.
Nessun commento:
Posta un commento