Tina Merlin a un convengo del PCI sulla tragedia del Vajont |
Chi legga "La casa sulla Marteniga", l’autobiografia di Clementina (Tina) Merlin (1926 - 1991), pubblicata postuma nel 1993 e si addentri nella piccola proprietà di Santa Tecla «a metà di una larga vallata nel mezzo di un anfiteatro di colline e montagne»[1] sa che quel mondo è cambiato. La guerra ha portato miseria e lutti, orrori per una bambina, più tardi adolescente, difficilmente dimenticabili. Nata a Trichiana, provincia di Belluno, nel 1926, da Cesare, muratore ed emigrante, e Rosa Dal Magro, contadina, Tina Merlin è la più giovane di otto fratelli. È una bambina sveglia e nel pomeriggio oltre che andare a servizio a casa delle famiglie benestanti del paese, svolge alcuni lavori nei campi. «Per “lavorare” s’intendeva tutto ciò che non riguardava l’interno della casa: il bucato, le pulizie, i pasti. Queste erano occupazioni normali per le donne, “Lavorare” era il resto: pascolare la mucca, barellare il letame dalla concimaia al campo, rastrellare il fieno, zappare, vendemmiare e pestare con i piedi nudi l’uva nei tini»[2].
Ha soltanto dodici anni quando si trasferisce a Milano con la sorella Ida, che già conosce quella realtà, per lavorare come domestica e bambinaia. «Da piccola ho molto desiderato essere un maschio per venire maggiormente considerata dai miei genitori e dalla gente. Rimuginavo spesso tra me, su queste differenze che ci attribuivano costringendoci a farci sentire, noi ragazze, inferiori ai fratelli»[3]. Non ci sono soltanto le ingiustizie e le umiliazioni da parte dei padroni, a Milano cominciano i bombardamenti. E le morti non sono solo tra i soldati. Così Tina fa ritorno a casa. Quando nell’autunno del 1943 le truppe tedesche occuparono la provincia, Tina Merlin aveva diciassette anni. Le ragioni che la portarono a entrare nella Resistenza furono diverse: l’istintiva coscienza di classe, ad esempio, e, naturalmente, una serie di richiami a principi cristiani con cui è cresciuta come l’aspirazione alla pace, al lavoro, alla giustizia e a una maggiore dignità nello Stato. Nel luglio del 1944 segue l’esempio del fratello Toni, che dopo l’8 settembre organizza la resistenza insieme ad altri giovani del paese. Come l’amica Wilma, Tina Merlin è staffetta partigiana nella brigata 7° Alpini e consumerà la propria bicicletta girando da un avamposto all’altro. È subito dopo la guerra di liberazione che Tina (chiamata Joe nella clandestinità) scopre l’amore con il compagno partigiano Aldo Sirena (Nerone) che sposa nel 1949 e dal quale avrà un figlio, Toni, nel 1951. Negli stessi anni comincia l’attività giornalistica, a dispetto della madre, dopo aver vinto il secondo premio ad un concorso indetto da «l’Unità». Tanto ama scrivere che esordisce nel 1957 anche come scrittrice traducendo l’esperienza resistenziale in Menica. Negli anni ’60 la sua penna giornalistica si lega indissolubilmente alla tragedia del Vajont. Per i suoi articoli di denuncia della situazione pericolosa connessa all’avanzare dei lavori di costruzione della diga già nel 1959 viene processata e poi assolta dal Tribunale di Milano per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico». La firma giornalistica di Tina Merlin fa il giro del mondo. Tenta di impedire il consumarsi della tragedia, come può e sa, ma lo sforzo è vano. Il suo libro Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, pubblicato finalmente nel 1983 dopo aver cercato per anni un editore interessato, ricostruisce l’intera vicenda. Dal 1964 al 1970 (con un anno d’interruzione) è eletta consigliere provinciale per il Pci. L’attività politica era cominciata subito dopo la fine della guerra quando, iscritta al locale Pci, cominciò la propaganda tra le ragazze. Fin da giovane sostenitrice della parità tra uomo e donna, Tina Merlin presta la propria attività anche attorno al gruppo UDI. «Il mondo che sognavo da bambina, quand’ero a servire, mi s’è aperto, esiste, io esisto col mondo». Dopo una breve esperienza nel 1967 in Ungheria, a Radio Budapest in lingua italiana, la giornalista riprende la collaborazione con l’«Unità» da Vicenza. Nel ’71 si trasferisce alla redazione di Milano e, da qui, nel 1974 a Venezia fino al 1982 dove dirige le pagine regionali del Veneto. Durante l’attività giornalistica collabora a varie riviste, tra cui «Patria Indipendente», «Vie Nuove» e «Protagonisti», la rivista dell’Istituto Storico Bellunese della Resistenza, del quale è stata socia fondatrice nel 1965 e per lungo tempo membro del direttivo. Nel 1992, poco dopo la sua scomparsa, è stata fondata l’associazione culturale che ne porta il nome e che vuole continuare la ricerca e l’impegno di Tina Merlin sui temi dei diritti civili, della giustizia sociale e della condizione femminile. Nel 2004 è stata pubblicata una raccolta di articoli giornalistici dal titolo La rabbia e la speranza.
NOTE
1. T. Merlin, La casa sulla Marteniga, 2 rist., Sommacampagna (VR), Cierre Edizioni, 2008, p. 9.
2. T. Merlin, op. cit. , p. 54.
3. T. Merlin, op. cit. , p. 54.
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Il ricordo di Toni De Marchi, giornalista
“Toni, chiama Tina Merlin all’Unità. Cerca collaboratori per la pagina del Veneto”. Franco Donati, il segretario della sezione di Cannaregio del Pci di Venezia, mi telefonò una mattina all’inizio del 1975. Non so se fu più lo stupore o la gioia, e mi ci volle un bel po’ per riprendermi. Facevo il ferroviere senza nascondere a nessuno che mi immaginavo un futuro da giornalista. Ma che l’entrata potesse addirittura essere attraverso quel giornale così importante, così amato da tanta gente certo non l’avevo mai neppure sognato. Non sapevo chi fosse Tina Merlin, se non per aver visto qualche volta la sua firma sulle pagine de l’Unità. Mi stupii però che cercasse collaboratori chiedendo ai segretari di sezione. Mi immaginavo il solito gioco del “chi conosce chi”: esisteva anche trent’anni fa.
Dal primo incontro con Tina, qualche giorno dopo, uscii senza un’opinione precisa su di lei. Ricordo di essermi sentito intimidito ma anche rassicurato. Fu un colloquio abbastanza breve ma ebbi la sensazione che dietro quelle poche parole che scambiammo ci fosse una persona vera.
Sensazione che si confermò nelle settimane successive, quando mi assegnò i primi incarichi. Piccole cose, come sempre succede. Il primo vero articolo, con firma e un bel titolo su tre colonne di taglio basso, era una storia di bollette dell’Enel gonfiate. Credo l’abbia stracciato almeno un paio di volte, forse tre, facendomelo riscrivere ogni volta. E fu l’inizio di un lunga serie di fogli finiti nel cestino. Erano cartelle a righe gialle, con la carta copiativa. Gli urli più forti erano per quando non si rispettavano i rigaggi. Anni dopo, quando mi trovai a fare il suo lavoro in altri giornali, capii quanto avesse ragione e quanto mi fossero servite quelle lavate di capo. Che non tutti i compagni della redazione apprezzavano. Anzi.
Anche se Tina non ne parlava mai, con il passare dei mesi cominciai a conoscere un po’ della sua storia: il Vajont, certamente, il periodo ungherese, la guerra. Dei suoi giorni da staffetta partigiana me ne parlò per primo Fiorello Zangrando, un giornalista de Il Gazzettino, anche lui bellunese. Mi sorprese non tanto la storia in sé, certo bellissima in quegli anni in cui la guerra partigiana era ancora un mito della nostra esperienza quotidiana, ma il fatto che a parlarmene non fosse stata lei.
In quei tre anni che rimasi a collaborare alla redazione veneziana, Tina si trovò più di una volta al centro di polemiche e di contestazioni provenienti dal Pci, ma anche dall’interno dell’Unità. Non ne sapevo molto, non facevo vita di partito, tanto meno conoscevo le dinamiche del giornale. Ma erano anni di giovani leoni arrembanti e spesso feroci, anche se i riti del partito mettevano la sordina a tutto. Non ne parlava quasi mai, ma era evidente la delusione più ancora che l’incazzatura. Lei era il vecchio che andava cancellato, demolito. Forse fu un passaggio necessario, ma molte ipocrisie, molte ambizioni carrieristiche erano evidenti e questo credo le pesasse più di tutto.
Difendeva il suo e il nostro lavoro con una tenacia ammirevole. Si batteva per noi collaboratori. Un’altra lezione che ho sempre avuto presente nella mia vita professionale. Mi fece avere anche un fisso mensile: 30 mila lire. Era come una promozione per me, che continuavo comunque a fare il ferroviere. Ad un certo punto da Milano (allora c’erano due Unità, quel del nord e quella romana, con due direttori: eredità della storia) ci fecero sapere che avrebbero fatto delle assunzioni nelle sedi regionali. Petruccioli, il direttore milanese, mi disse di licenziarmi dalla ferrovia. Entro due mesi, promise, sarei stato assunto all’Unità. Tina mi consigliò prudenza, di non licenziarmi, di prendere un’aspettativa. Ebbe ragione lei: la promessa rimase tale. Un giorno stavo per entrare nella stanza della redazione quando la sentii litigare al telefono. Parlava di me, di noi, della vita delle persone con cui non si deve giocare. Dall’altra parte c’era qualcuno del giornale, non so chi. Era evidente che la promessa di Petruccioli sarebbe rimasta tale. Anni belli e importanti, e non solo perché ero giovane. In redazione con noi oltre a Tina c’era anche Michele Sartori che per i suoi articoli viveva un vita da braccato, prima dai fascisti, poi dagli Autonomi padovani. Un altro mito, per me che facevo le tranquille cronache dal Comune di Venezia.
Per molto tempo, e ancora oggi, quegli anni con Tina mi sono serviti a costruirmi il mio piccolo pedegree, soprattutto con i colleghi più giovani. “Il mio primo capo è stata la Merlin, Tina Merlin” racconto qualche volta. “Sapete, quella del Vajont”, aggiungo per i ragazzi che vengono a fare gli stages dalle scuole di giornalismo e mi pare di diventare improvvisamente importante.
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