Maresciallo Renato Bellorio (CFS) |
Di questo, abbiamo parlato con Renato Bellorio che proprio in quegli anni comandava la Stazione del Corpo Forestale dello Stato di Casola Valsenio, occupandosi direttamente – fino al 1975, anno di costituzione della Cooperativa montana Valle del Senio – della gestione dei cantieri di forestazione.
Renato Bellorio è nato a Arsiè, nelle montagne bellunesi, l’11 ottobre 1927, ed è ‘figlio d’arte’ perché anche il padre, originario di Verona, era Guardia forestale. Così pure il fratello, morto in giovane età per malattia - riconosciuta per cause di servizio – quando prestava servizio sull’Aspromonte, in Calabria.
…Maresciallo Renato Bellorio, quando è arrivato a Casola? E quando ha assunto il comando della Stazione?
Sono arrivato a Casola l’1 luglio 1961. Avevo io il comando, ché ero solo, in quanto avevo sostituito quello che poi sarebbe diventato il mio suocero, Primo Ceroni.
Dov’era la sede?
Il Comando Stazione Forestale aveva sede in una stanza della Banca Popolare (oggi Monte dei Paschi - ndr) in Via Guglielmo Marconi. …Ricordo che la porta era in parte in ottone e nei pomeriggi estivi, a causa dell’esposizione al sole, il metallo si dilatava e non si poteva né entrare né uscire. E’ solo un aneddoto, ma era evidente, anche per l’insufficienza dello spazio, che era necessaria una sede nuova e più adatta.
…e per quanti anni ha svolto questo incarico?
Fino al 1987 ma con un’interruzione. A quei tempi tutti i funzionari dello Stato, per sposarsi, dovevano chiedere e ottenere l’autorizzazione del Ministero di appartenenza che, prima di decidere, raccoglieva informazioni sulla fidanzata. Io chiesi l’autorizzazione a sposarmi con la ‘signorina Silvana Ceroni’, residente a Casola Valsenio. Ma poiché, sempre a quei tempi, non era permesso prestare servizio nel Comune di residenza della fidanzata, quando la domanda arrivò a Roma, dalla Direzione Generale delle Foreste partì subito un telegramma che comunicava il mio trasferimento in Sardegna, in provincia di Nuoro, tra il Gennargentu e il Supramonte di Orgosolo. Ci sono stato tre anni, con mia moglie, e là è nato il nostro primo figlio.
Qual era in quegli anni, al suo arrivo, la situazione del territorio casolano? …dal punto di vista ambientale, idrogeologico e agroforestale?
Il fenomeno dell’esodo della popolazione dalle campagne, specialmente dalla parte più alta del territorio, aveva già provocato l’abbandono di ampie porzioni di superficie, con le immaginabili conseguenze ambientali e fenomeni di dissesto.
C’erano, all’inizio degli anni ’60, non più di 2.000 ettari di bosco ceduo – su 8.400 ettari di superficie comunale – utilizzati per la produzione di legna da ardere secondo una programmazione del taglio a cadenza di 10 e 15 anni. Ma anche il bosco subì gli effetti dell’abbandono.
A questa condizione di degrado del territorio, si accompagnava una forte disoccupazione, dovuta anche all’abbandono e alle minori opportunità di lavoro in agricoltura. La risposta che, allora, diede lo Stato, fu quella di avviare un vasto programma di rimboschimenti nei terreni non più coltivati: un programma che, nel contempo, rappresentava una risposta ai rischi di dissesto idrogeologico e al bisogno di lavoro.
Quante risorse arrivavano ogni anno, sufficienti per quante giornate lavorative, per quanti operai/operaie?
In quegli anni si stanziavano risorse ingenti, che consentivano di impegnare decine di operaie e operai forestali (oltre 120) che lavoravano nei cantieri aperti in diverse parti del territorio comunale.
I programmi di rimboschimento erano finanziati con la Legge 991 sulla montagna, una legge che ha risollevato le sorti della montagna. All’epoca al comando provinciale di Ravenna c’era il dott. Naccarato che fece molto per assicurare progetti e risorse per la forestazione nel nostro territorio, e credo che per questo gli vada dato merito e pubblico riconoscimento.
In particolare Naccarato, concorse alla realizzazione del “nucleo demaniale Alto Senio”.
Dopo la tremenda alluvione di Firenze del 4 novembre 1966, lo Stato stanziò oltre 1000 miliardi di lire per le sistemazioni idraulico-forestali. E siccome molti danni li ebbe sì la Toscana ma anche l’Emilia-Romagna, grazie alla tenacia del Comandante provinciale, dott. Naccarato (padre dell’attuale Comandante provinciale del CFS di Ravenna) si riuscì a costituire l’azienda di Stato per le Foreste Demaniali – nucleo Alto Senio. Questi terreni a inizio degli anni ’70 vennero trasferiti all’Azienda Regionale Foreste dell’Emilia-Romagna (ARFER) e – attraverso successive acquisizioni – raggiunsero ben 1.400 ettari di superficie, a cavallo tra le province di Ravenna, Bologna e Firenze.
Come si stabiliva dove rimboschire? Non erano solo aree pubbliche!
Si individuavano i terreni, in gran parte privati – che venivano poi sottoposti a vincolo - ma anche pubblici, attraverso le acquisizioni che si fecero in quegli anni.
Quali erano i criteri, le modalità del rimboschimento? C’era una preparazione dei terreni? E quali caratteristiche doveva avere un “impianto”?
Per progettare un impianto di rimboschimento si valutavano le caratteristiche dei terreni individuati: l’esposizione, l’altitudine, la pendenza, la profondità e la natura del terreno. Tante volte si faceva l’analisi chimica e fisica del terreno, per individuare le piante adatte che però non sempre nei vivai erano disponibili nella quantità necessaria per cui si era costretti a usare piante diverse, quelle che c’erano.
Il lavoro come si svolgeva, nell’arco dell’anno?
Si lavorava tutto l’anno, anche in condizioni climatiche difficili e a volte proibitive. Dopo avere “preparato” il terreno, che veniva ripulito dalle piante infestanti, si iniziava con l’apertura delle buche, larghe 40 cm e profonde 40 cm, a due metri di distanza l’una dall’altra: in tutto 2.500/2.600 buche per ettaro, in terreni ex coltivi o in ben più disagevoli terreni di galestro.
Poi c’era la messa a dimora delle piante, prelevate dai vivai e mantenute in ‘tagliola’ in prossimità dei cantieri di rimboschimento, dove si preparava l“impazimatura” - con un miscuglio di acqua e letame – per favorirne l’attecchimento anche in condizioni così sfavorevoli.
I progetti di rimboschimento prevedevano inoltre la realizzazione di piccole opere di consolidamento dei versanti con gabbionate, muretti a secco, per non parlare delle strade che venivano aperte per raggiungere le vaste aree rimboschite: decine di chilometri, con fossi, pozzetti, banchine, fossette taglia-acqua. Penso a quella che dalla Chiesuola va al Passo del Corso, o quella che arriva fino alla Croce dello Spino e su fino ai Prati Piani, quella che da Monte Battaglia va a Valmaggiore e poi al Mulino del Bagno…
Per portare al lavoro gli operai, che spesso erano privi di mezzi di trasporto adeguati, si fece arrivare la corriera fino ai Prati Piani: tutte le mattine, con 60 operai. Ricordo che lungo quella strada, alla Croce dello Spino – sul confine tra Ravenna e Firenze - c’era un cippo in pietra che portava ancora, ben visibili le insegne dello Stato della Chiesa e del Gran Ducato di Toscano, che purtroppo è andato distrutto.
Che ricordo ha di quegli operai e di quelle operaie?
Ho un bel ricordo di Angelo Malavolti che era capocantiere. Ogni mattina cominciava un’ora prima degli altri, si recava sul posto per preparare l’impazimatura in modo che quando gli operai arrivavano era già tutto pronto per iniziare la messa a dimora delle piante. E come lui, Angiolino Zenoni. Iniziavano il lavoro un’ora, un’ora e mezza prima degli altri, per portare le piantine dalle tagliole al posto di messa a dimora.
Sono uomini, questi, che meriterebbero – anche se postumo – un elogio per quello che hanno fatto; loro, e tanti altri operai. Tra questi voglio ricordare anche i fratelli Cavulla, Primo e Giovanni: che c’era chi non li aveva in simpatia perché …lavoravano troppo.
Poi, Ambrogio Baldassarri, “Sep”: un uomo capace di fare di tutto, muratore, falegname. E’ lui che ha costruito la stalla alle Cortine (podere del demanio forestale nella vallata del Céstina); lui, Sartoni e tanti altri.
E come non ricordare le donne?! A cominciare da Terziglia Carapia, Adele Faziani, Anna Bandini, Lucia Scalini, Leonia Poggiali… Donne che non hanno mai perso una giornata di lavoro. E anche quelle che non erano più giovanissime non si sono mai tirate indietro.
Perché se oggi tutti ammirano questi rimboschimenti – penso, tra i tanti, a quello che si può ammirare percorrendo la strada di Prugno – lo si deve al lavoro che hanno fatto questi operai, in condizioni proibitive, nel freddo intenso dell’inverno, o nel caldo torrido dell’ estate, a scavare sui galestri. Ricordo operai che svennero, per il caldo, mentre scavavano le buche.
In quelle condizioni c’era bisogno di acqua e bisognava trovarla sul posto. Angiolino Zenoni, che conosceva bene quei luoghi, era abilissimo nel trovarla. Prendevamo poi dell’anice da aggiungere all’acqua, per migliorarne la qualità.
Inoltre c’era il pericolo, durante l’apertura delle buche, di dare un colpo di zappa su una mina o altri ordigni bellici, in particolare nelle zone limitrofe a Monte Battaglia. Più volte abbiamo sospeso i lavori in queste località in attesa della loro bonifica da parte degli artificieri dell’Esercito.
Un dato… Nel periodo in cui lei è stato in servizio, quante piante, quanti ettari, di rimboschimento?
In quegli anni, tra 1960 e metà anni ’80, sono stati realizzati 1.000 ettari di rimboschimento con la messa a dimora di ben 2 milioni e 600 mila piante, non solo ‘pino nero’, ma anche cipressi, pino domestico…: una quantità enorme di piante e un’opera di ricostruzione ambientale, di manutenzione idraulico-forestale del territorio e di ridisegno del paesaggio, immensa.
Parliamo degli effetti, dei risultati di questa enorme opera di rimboschimento e rinaturalizzazione. Com’è cambiato il paesaggio?
Pochi giorni fa sono andato al Pian del Bello e non sapevo più dove era. Quando si arriva alla Tomba di Budrio, e specialmente da Trerio in su, è tutto cambiato. Dove prima c’era il pascolo, terreni seminativi, ora c’è solo bosco, una fitta boscaglia. Ci sono gli operai della Cooperativa Montana che fanno non più lavori di rimboschimento ma di diradamento, intervenendo anche sulle piante che si sono seccate o sono state danneggiate dalla neve. Perché noi mettevamo tante piante per ettaro – ben 2.500/2.600 – tenendo conto che negli anni successivi bisognava fare degli interventi di diradamento, ma purtroppo non sempre sono stati fatti, per mancanza di fondi e perché è cambiata la ‘politica forestale’.
Comunque sì, il paesaggio è completamente cambiato. Si pensi che il versante sinistro del Rio Cestina era completamente nudo, era tutto galestro e ora è tutto verde. Ci sono voluti 30, 40 anni per avere questo effetto, ché questi sono i tempi di crescita delle piante, in quelle condizioni non facili.
Qual è la condizione dei rimboschimenti? Dei cosiddetti boschi artificiali?
La condizione di questi rimboschimenti è un po’ triste, perché il rimboschimento, come il bosco naturale – e bosco naturale è anche il bosco ceduo – sono colture e come tutte le colture vanno coltivate. Il bosco ceduo ogni 10, 15 anni viene tagliato e durante l’inverno si fanno pulizie. Quando c’era la campagna popolata, d’inverno si facevano interventi di taglio ovunque e in maniera regolare ma da quando la campagna è abbandonata non è più così. E così è accaduto per i rimboschimenti, che sono stati lasciati a sé stessi.
Ma malgrado ciò si può dire che si stanno concretizzando gli obiettivi, gli effetti ambientali previsti, come il ritorno delle essenze spontanee, autoctone? E che fine faranno i boschi di pino nero? Sono destinati a lasciare il posto alle specie autoctone, alle latifoglie?
Sì, le conifere che abbiamo piantato in quegli anni hanno preparato, stanno preparando il terreno alla rinaturalizzazione spontanea. Si vede, si nota un po’ ovunque all’interno dei rimboschimenti, specialmente quelli di pino nero, che si rivitalizzano le piante indigene. Sia ben chiaro, questo lavoro si comincia a notarlo ma occorreranno ancora anni.
In conclusione, mi dica qual è secondo lei il principale motivo di soddisfazione per questa grande opera pubblica che è stato il rimboschimento dell’Appennino.
Il motivo di soddisfazione è quello di vedere le colline e i monti tutti verdi, ricoperti di boschi così fitti che le strade che li attraversano sembrano gallerie. Nel tratto di strada cha dal passo del Corso va a San Rufillo – e si tratta di una strada che venne aperta dalla forestale – ci sono punti dove c’è il buio, tanto è alta e fitta la vegetazione.
Al termine di questa intervista ritengo opportuno e doveroso esprimere un vivo ringraziamento e apprezzamento al mio collega Pier Luigi Moretti, che ha prestato servizio con me presso il Comando Stazione di Casola Valsenio. Nei 20 anni in cui abbiamo lavorato insieme, ha sempre dimostrato spirito d’iniziativa, capacità di servizio e massima disponibilità per l’espletamento degli incarichi affidatigli.
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Per la sua lunga e intensa attività nel Corpo Forestale dello Stato, al maresciallo Bellorio nel 1989 è stato conferito il titolo di Cavaliere della Repubblica.
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