di Damiano Zoffoli (Consigliere regionale PD)
Esattamente 100 anni fa, il 17 aprile 1912, nasceva a Faenza Benigno Zaccagnini.
Il suo esempio e la sua testimonianza sono il motivo dell’impegno in politica, di tanti di noi.
Cresciuto nell’Azione Cattolica e laureatosi in Medicina, si impegnò nella Resistenza scegliendo, come nome di battaglia “Tommaso Moro”; eletto all’Assemblea Costituente e confermato più volte deputato, è stato Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale e, successivamente, dei Lavori Pubblici.
Chi lo ha conosciuto può affermare con certezza che Zaccagnini non ha mai cercato il potere (e forse aveva paura di un potere che può diventare arbitrio), ma era stata la politica a cercarlo, quasi ad inseguirlo. Gli si era imposta come un dovere.
Fu così che, fortemente voluto da Aldo Moro, diventò Segretario della Democrazia Cristiana negli anni più difficili, dal 1975 al 1980, in un periodo in cui il travaglio politico di tutti i partiti italiani si stava svolgendo contemporaneamente alla più grave crisi economica del mondo occidentale, dopo il 1929.
Ereditò una DC che non si era ripresa dalla sconfitta storica (per la sua portata culturale, oltre che politica) nel referendum sul divorzio e che aveva perduto ogni fascino agli occhi delle giovani generazioni, ferita come era dall’occupazione del potere.
Zaccagnini trovò il coraggio di affrontare i mali oscuri del suo partito, facendogli ritrovare la coscienza e la consapevolezza più piena del suo essere un partito popolare; con la Segreteria Zaccagnini la DC tornò nella società, nel tessuto civile, nei luoghi di lavoro, nelle fabbriche, inventandosi nuove modalità di presenza; Zaccagnini seppe rappresentare la voglia di una “risurrezione” e, pian piano, diventò familiarmente, per tutti, “Zac”.
Intervenendo al Consiglio Nazionale, nel novembre 1975, disse: “Sono sempre stato accusato di essere un ottimista: ma io penso, l’ho sempre detto, che senza ottimismo non si possa far politica. Un ottimismo che significhi speranza, fiducia nelle proprie idee, coerenza e coraggio: il contrario, cioè, non tanto di quella meditata consapevolezza che a volte può condurre allo sconforto, quanto del cinismo, dell’arido professionismo politico. Ho sempre pensato anche che il fascino della politica stia nell’essere costantemente tesi ed ancorati ad un patrimonio ideale, conservando però la capacità di calarsi, con uno sforzo talvolta duro e difficile, sul terreno delle realtà concrete, per compiere quelle azioni che siano nello stesso tempo coerenti con gli ideali e compatibili con la realtà, in una misura che corrisponda sempre ad una autentica sincerità ed onestà di atteggiamenti e di scelte. Più che nella validità di strumenti, che pur sono importanti, ho sempre creduto fermamente nella capacità di comprensione e nella straordinaria possibilità di mutamento che nasce dalle idee, dalla forza delle idee. Mi pare che mai come in questo momento abbiamo avuto bisogno di ricorrere all’ottimismo della fiducia e della speranza, alla coerenza ideale ed al senso della realtà, alla forza liberante e innovatrice delle idee”.
In questa riflessione è racchiusa la ragione di quella sua capacità di comunicare con la gente, la credibilità di un volto che diventerà il manifesto della “nuova DC”, la semplicità di un uomo che ha coinvolto ed entusiasmato i giovani, i molti giovani che hanno creduto nel rinnovamento della politica, che hanno ritrovato in Zaccagnini la coerenza che andavano cercando, e sono tornati ad impegnarsi, garantendo così la ripresa elettorale del partito.
Zaccagnini che stava facendo della DC un partito giovane, aperto ai problemi della società e attento “al nuovo”, parlava del Partito avendo sempre uno sguardo “fuori” dal Partito: “Sappiamo tutti la durezza dei tempi, delle misure attraverso le quali occorre passare per tentare di restituire slancio e respiro alla nostra economia, per garantire l’occupazione e crearne di nuova, ma vorrei che almeno questo si sentisse: che il dramma dei lavoratori è anche il nostro dramma, che le loro sofferenze sono anche le nostre, perché questa comprensione, questa solidarietà costituiscono la prima condizione per poter studiare, operare, impostare soluzioni concrete ed efficaci” (Una Proposta al Paese – 1975).
Come scrisse Walter Tobagi, “Il primo miracolo di Zaccagnini è stato di restituire fiducia a un partito che sembrava destinato al naufragio: l’onesto Zaccagnini, il segretario dalla faccia pulita, il simbolo dell’antipotere che entusiasma le folle, parla ai giovani, risveglia l’anima popolare del partito” (Corriere della Sera – 16 gennaio 1980).
Benigno Zaccagnini era un uomo mite e sorridente, capace di ascolto, timido nell’esporre pensieri forti e fermi, aveva occhi che guardano lontano e un’umanità fatta di salde certezze, ma anche di necessari dubbi; cristiano impegnato in politica “a causa della fede, ma non in nome della fede”, come amava ripetere, interpretava una coraggiosa laicità, nutrita di profonda spiritualità cristiana, mai però esibita.
Il Cardinal Tonini, qualche tempo fa, volendo riassumere con poche parole il pensiero di Zac disse: “Ecco cosa significa, in politica, darsi un’anima”.
Forse perché anche lui ricordava un particolare episodio: “Tu sei Zaccagnini?” gli chiese un giorno Papa Giovanni XXIII. Non ebbe il tempo di rispondere e si sentì subito aggiungere: “Ho sentito parlare molto di te. Capisco perché: la tua faccia è come la tua anima”.
Il suo volto, in effetti, conteneva ed esprimeva il suo grande carisma: vi si coglieva l’autenticità della persona, la verità e l’unità del suo dire con il suo pensare e il suo essere.
È stato il simbolo vivo di una speranza, di una resurrezione possibile; con la disarmante semplicità delle sue parole, non ha mai cercato il consenso fine a se stesso; sentiva una preoccupazione sincera per il destino della comunità; sempre leale con gli alleati di governo, e costantemente attento alle novità emergenti dalla società civile, si è rivelato ben presto anche un politico innovatore e coraggioso.
Quella sua testimonianza, lunga tutta la sua esistenza umana, interpella anche noi, ci provoca, ci chiede conto, ci obbliga a riflettere su ciò che la politica può e deve essere: uno strumento al servizio del bene comune, ma anche uno sguardo sul futuro, capace di delineare solide prospettive per i nostri giovani e ridare speranza alle nostre comunità.
Oggi, come allora, il nostro Paese sta vivendo un periodo difficilissimo, e i Partiti e la Politica hanno perso quel ruolo e quella credibilità che furono affidati loro proprio dai fondatori della democrazia e della nostra Costituzione; una crisi che sembra senza ritorno.
“Sl’è nota us farà dè” ripeteva spesso Zac in dialetto romagnolo, negli anni del terrorismo, ricordando un motto della Resistenza.
Impegnarsi perché “si faccia presto giorno” è il modo migliore per ricordarlo.
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