mercoledì 8 ottobre 2014

Jobs Act e Articolo 18: quattro punti per capire di cosa stiamo parlando

di Alberto Pagani (Deputato PD) 

Vorrei fare un po' di chiarezza e dire la mia sul dibattito confuso che si sta svolgendo da settimane attorno alla riforma del lavoro (il cosiddetto Jobs Act) attualmente in discussione al Senato, dove potrebbe essere approvata già oggi o domani.
Innanzitutto una questione tecnica: si tratta di una Legge Delega, ovvero una legge che – qualora approvata dal Parlamento – delega il Governo a legiferare su un ambito circoscritto attraverso successivi decreti legislativi (chiamati anche decreti delegati).
La Costituzione fissa le condizioni per cui una Legge Delega sia ammissibile: in particolare, deve avere un oggetto definito e deve contenere al suo interno i tempi con cui vengono promulgati i decreti successivi. La riforma del lavoro quindi prende la forma di una consegna all'Esecutivo che viene legittimato dal Parlamento a legiferare sulla materia. Questo per chiarire la procedura e l'iter parlamentare. La Camera, e concludo il primo punto, non ha ancora discusso il Jobs Act che in prima lettura è stato dibattuto a Palazzo Madama.
Seconda questione: quali sono i contenuti della Legge Delega sul lavoro? In tutto il caos delle scorse settimane, dove ci si è azzuffati a mio avviso in maniera ben poco costruttiva attorno all'Articolo 18, sono passate in secondo piano le altre misure previste dal Governo. E non dovrebbe essere così sia perché alcune sono impattanti tanto quanto l'abrogazione del reintegro in caso di licenziamento, sia perché non vorrei che gli errori compiuti durante la discussione sull'Articolo 18 tornassero a presentarsi nello stesso modo quando si affronteranno più approfonditamente gli altri titoli previsti. Al momento, con oltre 660 emendamenti, la discussione in Senato riguarda un testo vasto ma ancora poroso e vago. In cui però sono in discussione:
·         il riordino delle tipologie contrattuali;
·         il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (di cui non è, ad esempio, ancora chiara la durata del periodo di prova);
·         il demansionamento possibile del lavoratore qualora l'azienda ne abbia stringente necessità (tasto molto delicato);
·         la disciplina dei controlli a distanza da parte del datore di lavoro (altro tasto molto delicato); l'introduzione del compenso orario minimo;
·         la razionalizzazione dell'attività ispettiva sui luoghi di lavoro.
E ancora:
·         la riforma degli ammortizzatori sociali in senso universalistico, una cosa civile e sacrosanta ma per cui vanno trovate le risorse (costano miliardi di euro);
·         il riordino delle funzioni dei centri per l'impiego;
·         l'accompagnamento obbligatorio della formazione legata all'erogazione del sussidio di sostegno al reddito.
Auspico quindi che il lavoro parlamentare e il dibattito politico entrino sensatamente nel merito dei punti in discussione, senza perdersi in slogan come è stato fatto sull'Articolo 18. Quando la Camera riceverà i lavori di Palazzo Madama, io cercherò di farlo con precisione.
Terza questione: cos'è successo attorno all'Articolo 18? Per settimane il presidente del Consiglio e segretario del Partito Democratico ha ribadito quanto sia sua ferma intenzione abolire la disciplina del reintegro in caso di licenziamento con un atteggiamento di chiusura verso ogni possibile dialogo che, come sapete, ha creato parecchi malumori all'interno del Pd. Ricordo incidentalmente che la riforma Fornero ha ridotto già nel 2012 la portata della norma per i licenziamenti economici. Ciò detto, poi, nella Direzione nazionale del Partito Democratico del 29 settembre, è stato approvato il documento proposto dallo stesso Renzi che mitiga la portata degli annunci fatti fino a quel momento. Al punto 4 della mozione c'è scritto infatti che i Democratici propongono “una disciplina per i licenziamenti economici che sostituisca l'incertezza di un procedimento giudiziario con la chiarezza di un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio, abolendo la possibilità del reintegro. Il diritto al reintegro viene mantenuto per i licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare”. Significa che il Pd ha ufficialmente deciso di mantenere il reintegro previsto dallo Statuto dei lavoratori per i licenziamenti discriminatori e per quelli di natura disciplinare (di recente uno studio della Luiss ci informa che questi ultimi sono la quasi totalità delle cause). Di fatto il documento non prevede il reintegro solo per i licenziamenti motivati da ragioni economiche (se l'azienda deve tagliare, se è in atto un ridimensionamento societario, ecc.). Si capisce con ciò che la mozione approvata in Direzione non dice affatto che l'Articolo 18 verrà abolito. E, appunto, si tratta della mozione presentata da Matteo Renzi. Non capisco quindi perché per 20 giorni si sia creato un caos incredibile, dentro al partito e nei media, su un titolo che poi non ha trovato riscontro in Direzione. Non mi appassiona per niente un dibattito che si sviluppa per “titoli” e non spiega quello che veramente si sta facendo. Non mi appassiona un dibattito che crea una crescente discrasia tra la comunicazione e i fatti. E visto che la riforma, al di là delle questioni sul reintegro, deve affrontare altre cose molto molto concrete auspico che di qui in poi si usi un metodo diverso nello spiegare quello che si intende realizzare.
Quarta questione: come verrà recepito il documento del Partito Democratico nel testo della Legge Delega? Mentre scrivo la domanda non ha risposta. Visto che le notizie si accavallano ogni giorno, può anche darsi che oggi l'interrogativo sia risolto. Ma al momento non è così. E sento ipotesi disparate in materia. Partendo dall'assunto che il Nuovo Centro Destra vuole abolire l'Articolo 18 (almeno è quello che i suoi esponenti dichiarano e hanno dichiarato), il problema diventa politico e interno all'Esecutivo. Il Pd, partito di maggioranza nonché il partito di cui il premier è segretario, ha votato però a favore del mantenimento del reintegro in alcuni casi di licenziamento. La questione verrà posta attraverso un emendamento che accoglie l'istanza del Pd o attraverso una modifica che rappresenta una mediazione tra Pd e Ncd? O, addirittura, non troverà spazio nella Delega ma solo nella stesura dei Decreti legislativi, visto che sul testo a Palazzo Madama si parla di mettere il voto di Fiducia? Di certo, però, il dibattito sull'abolizione dell'Articolo 18 diventa con ciò soprattutto una questione politica interna al Governo. E, forse, anche questa è una delle ragioni per cui bisognava esser chiari e non scaricare sul Pd (la cui minoranza viene così accusata di “passatismo”) i problemi della maggioranza, che non è composta solo dai Democratici.
Se nel merito delle altre proposte contenute nella Delega mi riservo di intervenire quando saranno in discussione a Montecitorio e quando saranno più definite, dico però la mia sull'Articolo 18. Non credo che l'abolizione di un diritto sia la priorità per rilanciare l'economia e l'occupazione. Non credo che sia la flessibilità in uscita il problema fondamentale delle aziende e la ragione per cui l'Italia non esce dalla recessione. Detto questo, la politica è fatta di dialogo e negoziazione e si può discutere anche dell'Articolo 18. Se l'obiettivo è disincentivare il farraginoso ricorso alla giustizia nei casi di licenziamento economico e garantire un indennizzo, trovo che il documento approvato dalla Direzione Nazionale del Pd sia accettabile. Mi pare insomma che la mozione presentata dallo stesso Matteo Renzi in Direzione sia valida. Ora si tratta di difenderla concretamente, però, nella discussione Parlamentare.

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