domenica 15 novembre 2015

La vita contro la morte

di Walter Veltroni (l'Unità, 15 novembre 2015)

È la normalità della vita il nemico del terrorismo. Vogliono impedirci di essere. E di essere liberi. Creando il paradosso di un mondo globalizzato e interconnesso costretto a non uscire da casa, con il coprifuoco e le frontiere chiuse
Una volta, sono passati tanti anni, questo giornale uscì con la prima pagina bianca. Il giorno prima c’era stata l’ ennesima sentenza di assoluzione nel processo per la strage di Bologna. Quella scelta fu fatta in onore di quei morti, straziati da un attentato il cui ideatore e esecutore ancora oggi non si conosce. Fu fatta per protesta. Quel bianco era però anche la resa delle parole, inadeguate, talvolta , all’ingiustizia o al dolore. Di fronte a quello che è successo a Parigi, città di tutti noi, forse dovrebbe valere lo stesso principio. Vedo le foto di quei ragazzi uccisi e le immagini della fuga disperata di chi si è salvato e misuro la distanza siderale di quella tragedia intollerabile con il brusio di fondo di certi commenti di maniera.
Ho sentito e letto in queste ore parole sguaiate, ho ascoltato deputati urlare e insultarsi in tv, mi hanno dato fastidio certe banalità retoriche e ho odiato lo sciacallaggio politico, irresponsabile e pericoloso. Ho visto che un ideologo grillino lasciava intendere che l’attentato era stato, ovviamente, foraggiato dagli Stati Uniti e nella notte di venerdì, mentre genitori disperati cercavano i loro figli nelle pagine dei social network e nelle strade, i parigini aprivano le loro porte a chi scappava, si sono letti proclami razzisti e c’è stato persino chi, non appagato da quello che stava succedendo, ha messo in giro la falsa notizia di un terremoto che aveva colpito il Giappone con 15000 vittime: «L’ha detto la rete». In televisione deputati che per tutta la vita si sono occupati, nel caso migliore, di altro si sono improvvisati esperti di Islam e di relazioni internazionali indicando soluzioni più o meno semplificate.
Io credo invece che questo sarebbe il tempo di spremere le meningi invece delle laringi. Dal 1945 questo è il momento più difficile della nostra storia. Quando si sfiorò, nel 1962, un conflitto nucleare per la crisi dei missili di Cuba, c’erano due grandi attori, la cui capacità politica e il cui senso di responsabilità impedì che il mondo finisse la sua storia.
Oggi non è così, la necessaria e auspicata fine del mondo separato in blocchi non ha generato un nuovo ordine internazionale e in certe aree del pianeta esplodono conflitti che generano morte, dolore, esodi di massa. Il terrorismo internazionale ha scelto, da almeno venti anni, di colpire non solo l’Occidente ma chiunque cerchi di frenare le mire espansionistiche dell’estremismo integralista che, nel frattempo, si è fatto stato, potenza militare, finanziaria, tecnologica. Il suo obiettivo è il caos.
L’esercito terroristico, è la prima volta che questo accade, è nutrito da persone disposte a morire e dunque difficilmente contrastabili. In fondo ogni teoria della sicurezza si fonda sul principio che anche il più efferato degli attacchi violenti abbia, tra le sue norme di comportamento, il naturale istinto di sopravvivenza.
Questo rende molto complesse le strategie operative di contenimento. Ho usato non a caso l’espressione “esercito terroristico” perché penso che continuare a parlare di cellule e di cani sciolti sia solo una rassicurante falsità. La verità è che, per addestramento, disciplina, capacità di obbedire a ordini e disponibilità al sacrifico di se stessi, oggi il terrorismo può vantare una rete militare diffusa in tutto il mondo.
Sul Corriere della Sera di ieri Pierluigi Battista ha giustamente ricordato la sequenza di episodi terribili che solo la impaurita cecità dell’Occidente ha impedito fosse letta come una strategia globale. Non ricordo qui le tappe di un percorso settimanale di stragi che passa da Copenhagen a Beirut, dal Kenya al Canada. E che arriva alla terribile aggressione in strada a Milano di un ebreo, segno di un crescente nuovo antisemitismo.
Fino a due episodi recenti assolutamente sottovalutati: la strage dei ragazzi della sinistra turca a Suruc e l’abbattimento, in volo, di un aereo russo in viaggio dall’Egitto verso la Russia. Isis ha colpito la Russia per la posizione che ha preso sulla Siria e metodicamente attacca chiunque ostacoli la sua egemonia dall’area. Dunque sembrerebbe auspicabile e naturale che Europa, Russia e Usa trovassero una linea comune per contrastare questa minaccia. E non bisogna smettere di seguire e incoraggiare tutti i tentativi dell’Islam moderato di essere alternativa forte al califfato.
Il principale pericolo di momenti come questi è l’emotività figlia della paura. Quella che, dopo l’undici settembre, fece precipitare in una reazione militare sganciata da una strategia d’insieme. Davvero qualche persona ragionevole pensa che si possa vincere questa battaglia contro il terrorismo identificando una religione intera con i boia del Bataclan? Reazioni strumentali o isteriche alimentano l’odio e rischiano di spostare i rapporti di forza in modo inaccettabile. Molti dei migranti che arrivano sul nostro territorio fuggono proprio dalle stesse pallottole con cui si è sparato a Parigi. Tra i morti delle Torri Gemelle o quelli che sono stati uccisi mentre ascoltavano un gruppo rock americano c’erano tanti musulmani che convivono in pace nelle società occidentali e che sono parte del nostro tessuto civile. Sono anche loro i nostri morti, quelli che piangiamo. Non dimentichiamolo mai.
La grandezza di una civiltà è data dalla sua capacità di far convivere, anche nei momenti più difficili, identità e dialogo. Ma per farlo la civiltà occidentale non deve mostrarsi debole in nessuno dei due poli della sua migliore storia, quella che ha fatto un così lungo periodo di pace e prosperità. Deve rifiutare il muro contro muro, deve accettare le diversità e coinvolgere, socialmente e culturalmente, le parti migliori di quel mondo in una strategia comune di vita pacifica, di lotta alla violenza e all’intolleranza.
Sapendo, tutti, però che la parte più dialogante dell’Occidente deve fissare dei paletti. Perché la sua identità non è carta velina. I paletti sono quelli che abbiamo conquistato a fatica dopo i bombardamenti e i lager e i gulag. Il valore inalienabile della libertà, non solo la parola forse facile a dirsi, ma la pratica quotidiana e reale, fatta di diritti universali, a cominciare da quelli delle donne e di rispetto delle diversità religiose, culturali, politiche.
Io accetto la tua cultura e rispetto la tua fede. Ma per essere accolto, integrato e valorizzato tu devi accettare la mia e rispettarla, è questo che si chiama libertà. È una condizione imprescindibile. Le prediche d’odio sono l’anticamera della violenza diffusa, e non possono essere tollerate.
Contro il terrorismo bisogna combattere con strumenti di repressione adeguati, senza timore di usare la forza se essa è parte di un disegno strategico d’insieme. Un grande ruolo deve averlo il coordinamento sovranazionale del lavoro di intelligence perché non accada più che si possa organizzare sul suolo di un paese europeo un attacco di tale precisione e coordinamento.
I luoghi scelti non sono più, come fu per Charlie Hebdo, quelli che rappresentano un simbolo. Si è sparato su ragazzi inermi, sui clienti di un ristorante, si sono fatte esplodere bombe durante una partita di calcio.
È la normalità della vita il nemico del terrorismo. Vogliono impedirci di essere. E di essere liberi. Creando il paradosso di un mondo globalizzato e interconnesso costretto a non uscire da casa, con il coprifuoco e le frontiere chiuse.
La vita contro la morte. Questo è il conflitto.

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