domenica 15 novembre 2015

NOTE CASOLANE - Lotte bracciantili nel dopoguerra

Manifestazione di braccianti e mezzadri in Piazza Alfredo Oriani (fine anni '50)
Il testo che riportiamo è estratto dalla relazione presentata da Giuseppe Sangiorgi in occasione del 30° anniversario della Federbraccianti CGIL (Faenza, giugno 1978) e pubblicata su Il Senio – n. 3 / Agosto 1982

Sul giornale comunista faentino “Bandiera Rossa” del giugno 1949, al termine di un articolo di commento sul grande sciopero dei braccianti (1) ravennati durato quattro settimane, si poteva leggere “finalmente nessun crumiro è sceso dalla montagna a lavorare per i padroni”.
Era il riconoscimento di una coscienza di classe e di una unità con tutti gli altri lavoratori a cui erano pervenuti i braccianti della montagna.
Eppure erano trascorsi appena 10/15 anni da quando – ricorda Mario Vigna ancora sul giornale comunista del 10 maggio 1946 – i braccianti e i mezzadri poveri della collina scendevano a Faenza, a piedi e di notte, e sdraiati o seduti sui gradini del Duomo attendevano l’alba per “vendersi” ai contadini che per necessità di raccolto dovevano appunto “comprarli”; spesso senza garanzia, con una paga al si sotto della tariffa e a volte per la sola “mangiata”.
Questa situazione provocava non si rado zuffe, insulti, minacce tra i braccianti faentini e i “montanari” ai quali si imputava la responsabilità di un generale abbassamento delle tariffe.
Non erano trascorsi molti anni, ma nel frattempo c’era stata la guerra e la lotta di liberazione attraverso le quali si era realizzata una alleanza di tipo politico, sociale e anche sindacale tra braccianti e mezzadri (2) i quali, insieme, costituivano oltre l’85% delle forze partigiane operanti nella media e alta Valle del Senio.
Si poneva in tal modo fine a dannosi contrasti tra due categorie che erano tra le più povere della già povera società casolana e contadina in genere.
Eppure questo non aveva impedito scontri a volte durissimi e – bisogna dirlo – un certo sfruttamento dei braccianti da parte dei mezzadri sui quali i proprietari erano riusciti a caricare tutto l’onere di lavori extrafamiliari.
Una divisione provocata ed alimentata dagli agricoltori proprietari poiché da essa traevano non pochi vantaggi economici e soprattutto perché essa era una garanzia di stabilità sociale e politica per la classe dominante nella società contadina.
Non solo, ma combattendo e formandosi una coscienza politica a contatto con gli operai della pianura che in gran numero erano entrati nelle formazioni partigiane della montagna, contadini e braccianti avevano fatti propri i metodi e molti obiettivi della classe operaia formando un unico grande fronte di tutti i lavoratori impegnati nelle lotte del dopoguerra.
Fino ad ora si è esaminato, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo, la partecipazione della popolazione contadina alla guerra di liberazione mentre solo ora si comincia a esaminare che cosa la Resistenza ha dato al movimento contadino, che cosa essa rappresenta.
Essa fu un avvenimento unico, con conseguenze sociali, politiche e sindacali tra le più importanti che abbiano interessato la popolazione della montagna.
Essa ruppe l’isolamento del mondo contadino, ne sconvolse la struttura e gli istituti su cui si fondavano i privilegi e lo status sociale ed economico.
Un mondo angusto, dominato da due figure tradizionali: il padrone e il parroco.
L’uno dispensatore, a suo piacimento, di lavoro e dunque di pane; l’altro dispensatore di buoni consigli, tramite indispensabile per gli uffici civili, lettore delle lettere per il fratello o il figlio lontano, ecc.
La guerra liberò contadini e braccianti da uno stato di soggezione e tra coloro che dopo la scuola politica dei commissari e dei comandanti partigiani, continuarono a mantenere vive le aspirazioni di giustizia e il diritto a una vita più dignitosa dei lavoratori dell’alta Valle del Senio, furono proprio i braccianti i primi quadri delle nascenti organizzazioni politiche e sindacali.
Sulla base di questa unione finalmente trovata vennero condotte tutte le lotte sindacali e politiche dell’immediato dopoguerra.
Da una parte coloni e braccianti organizzati nella Camera del Lavoro (3) e nei partiti della sinistra; dall’altra parte i proprietari raccolti attorno al partito della Democrazia Cristiana.
Il tema principale attorno a cui ruotavano tutti i conflitti era ovviamente la riforma agraria, che per i mezzadri significava un patto colonico più equo e per i braccianti l’esecuzione di lavori di miglioria fondiaria da farsi a carico dei proprietari.
Vi erano poi le richieste di nuove case, l’apertura di cantieri per la ricostruzione delle strade e di tutte le altre opere andate distrutte con la guerra.
Certo i mezzadri si erano sottratti ad uno stato tradizionale di soggezione verso i padroni, ma un conto era concordare un rapporto più favorevole nella Camera del Lavoro, un altro imporlo al padrone, a tu per tu, nell’aia (4).
Il padrone per imporre la sua volontà poteva contare su una cultura in ogni caso superiore, su una abitudine al comando e soprattutto su ricatti più o meno velati quali l’escomio (5) o il mancato anticipo di denaro per le competenze del mezzadro nella conduzione dell’azienda.
Dal verificarsi diffuso di questa situazione nacque la decisione di affidare ai braccianti, alle squadre d’aia (6) la difesa degli interessi dei contadini, in particolare per l’emanazione e l’applicazione del «lodo De Gasperi».
In esso, per definire la vertenza mezzadrile, si prevedeva che il ricavato del 10% del prodotto di parte padronale dovesse essere destinato all’esecuzione di lavori di ricostruzione e miglioria fondiaria da eseguirsi con l’impiego esclusivo di manodopera bracciantile.
L’intervento delle squadre d’aia era ovviamente limitato nel tempo ma non per questo meno decisivo poiché esso veniva esercitato nel momento focale del rapporto proprietario-mezzadro e cioè nel momento del riparto del prodotto granario nell’aia.
E furono scontri durissimi che a Casola giunsero fino alla denuncia all’autorità giudiziaria di intere squadre d’aia che si erano rifiutate di caricare sui carri del padrone il 50% del prodotto, non il 40 o il 47% come reclamavano i contadini.
La Lega dei Braccianti si impose come la componente più compatta e più battagliera del fronte sindacale casolano, formando nello stesso tempo anche i quadri per le organizzazioni politiche della sinistra.
Nel corso delle lotte di formarono anche i quadri sindacali che poco a poco sostituirono i primi quadri usciti dalla lotta partigiana.
I risultati non furono tuttavia pari all’impegno profuso; le opere di ricostruzione avviate dall’Amministrazione comunale e dal Consorzio dei bacini montani, oltre che tardive, permettevano l’impiego di una minima parte dei braccianti così che per buona parte dell’anno la disoccupazione affliggeva gran parte del 500 e più braccianti casolani.
Ciò che chiedevano e che avrebbe risolto molti dei loro problemi era l’esecuzione dei lavori di miglioria fondiaria.
Ma i proprietari dell’alta collina, benché esistessero accordi firmati dalla loro organizzazione, benché fossero state fatte promesse e garanzie delle loro organizzazioni provinciali, benché fossero disponibili incentivi non disprezzabili e contributi sostanziosi, benché fossero state emanate leggi che li imponevano, si rifiutavano di avviare i lavori di miglioria se non in minima parte.
Si pensi solo che nel 1951 su 136 proprietari casolani tenuti alla esecuzione delle migliorie, solo 21 vi avevano provveduto e solo in parte, tanto che su oltre 6 milioni di imponibile accertato dalla Camera del Lavoro, erano stati eseguiti lavori per sole 836.000 lire.
Ufficialmente il rifiuto era motivato da difficoltà economiche ma, come aveva accertato l’Ufficio delle imposte comunale, queste erano valide solo per meno della metà dei proprietari.
In realtà gli altri intendevano mantenere e riappropriarsi di un potere decisionale totalmente svincolato da qualsiasi pressione, una prerogativa messa in pericolo dalle prime lotte dei lavoratori.
Dava forza a questa linea di condotta la constatazione ormai chiara che Democrazia Cristiana intendeva attuare la ricostruzione secondo gli interessi della borghesia industriale e agricola.
I proprietari erano consapevoli che l’applicazione dell’imponibile avrebbe comportato una diminuzione di influenza politica e di potere economico. Si deve inoltre tenere conto della mentalità dei proprietari della montagna, una mentalità chiusa, fatalista e tradizionalista, estranea agli investimenti e alle trasformazioni fondiarie.
Dopo la guerra avevano ripreso generalmente a dirigere le aziende secondo i metodi tramandati di generazione in generazione, con l’unica preoccupazione di trovare un contadino con forti braccia, che lavorasse molto e reclamasse il meno possibile.
Dopo le elezioni del 18 aprile 1948 e la vittoria della D.C. si verificò un calo nella lotta mezzadrile: si riprese a portare le regalie al padrone e a partire a metà il prodotto.
Non diminuisce tuttavia la forza dei braccianti su cui cade il peso del movimento sindacale collinare poiché le altre leghe aderenti e cioè edili e birocciai, i lavoratori degli enti locali e i facchini, hanno un peso relativamente basso, sia sindacale sia come impegno di lotta.
Dopo il ’48 il sindacato si vede costretto da una lotta più di difesa che volta a nuove conquiste, sia per la maggior forza della parte avversaria sia per un sensibile calo delle forze.
Dai 969 iscritti del 1946 si era passati agli 810 del 1947 e ai 734 del 1948.
Fu tolto il controllo del collocamento al sindacato così da esporre i braccianti alla discriminazione politica dei proprietari, i quali ingaggiavano i braccianti che meno si esponevano nelle manifestazioni della sinistra e sindacali.
Intervenne anche la scissione sindacale che tuttavia a Casola non provocò conseguenze particolarmente negative poiché la componente cristiana della Camera del Lavoro era di poco superiore al 4%, mentre quella comunista superava il 60% e quella socialista era circa il 20%.
Al sindacato “bianco” aderirono quei braccianti che non si erano iscritti nella Camera del Lavoro con la speranza di trovare più facilmente lavoro presso gli agricoltori possidenti casolani, notoriamente nemici delle organizzazioni sindacali.
Il 1948, il 1949 e il 1950 furono anni durissimi per i braccianti casolani e per tutti i braccianti in generale, soprattutto nelle stagioni invernali.
Si registrò un sensibile calo nelle giornate lavorative, malgrado un encomiabile impegno dell’Amministrazione comunale per aprire cantieri di lavoro o per trovare contributi ed aiuti per le famiglie più povere che erano quelle dei braccianti.
Famiglie che aumentavano continuamente di numero per il trasferimento delle famiglie mezzadrili dei fondi più poveri nel capoluogo o negli agglomerati rurali.
Tra l’annata agraria 1946 – 1947 e 1949 – 1950 si registrò un generale spostamento della categoria dei braccianti abituali (151 – 200 giornate lavorative) verso la categoria degli speciali (150 giornate) e il calo del numero dei braccianti che avevano lavorato nel corso dell’anno da 443 a 321.
Nel 1951 i braccianti casolani avevano accumulato debiti presso i negozi del paese per 3.195.000 lire e i negozianti da parte loro minacciavano di non concedere più credito.
Alla fine del 1951, spinta dal sindacato e pressata dalla situazione economica dei braccianti non più sostenibile, l’Associazione degli Agricoltori casolani si impegnò pubblicamente ad eseguire i lavori di miglioria con l’accordo che il Sindaco aveva la facoltà di intervenire per costringere anche gli agricoltori contrari. Inoltre fu stabilito che l’assunzione di mano d’opera doveva farsi solo tramite l’Ufficio di collocamento e che il proprietario aveva facoltà di indicare solo due braccianti di suo gradimento ogni cinque assunti e non come prima con assunzione diretta e con tutte le discriminazioni facilmente comprensibili.
Con le conquiste sul campo sindacale la Camera del Lavoro prende di nuovo forza anche dal punto di vista numerico.
I poco più di 700 iscritti del 1948 diventano 1.200 circa nel 1951 – 52. Non solo, ma la compattezza, l’incisività del fronte sindacale della sinistra portano anche alla conduzione, in qualche caso, di lotte unitarie insieme ai lavoratori iscritti al sindacato “bianco”, malgrado le proteste dei dirigenti di quest’ultimo.
Dal 1950 i braccianti della montagna sono via via sempre più gravati dagli effetti negativi dello spopolamento delle campagne, dell’abbandono dei terreni, delle diminuzioni delle colture. Per i mezzadri c’è sempre la possibilità e la speranza di «sbassarsi», di spostarsi verso un podere di pianura più redditizio. Ma i braccianti non possono sbassarsi poiché in pianura troverebbero gli stessi problemi. Nel luglio 1951, mese tradizionalmente di piena occupazione, a Faenza i disoccupati erano oltre 1500.
I braccianti restarono e per loro la rinascita della montagna divenne un problema di vitale importanza per il quale continuarono a battersi forse più degli stessi proprietari che pur ne avrebbero tratto vantaggi economici non indifferenti.

NOTE
  (1) Operaio che prestava le proprie braccia come forza lavoro in campagna in cambio di una retribuzione in natura o in denaro, quindi a chi lavorava la terra alle dipendenze dirette di un proprietario terriero o di chi per esso ne faceva le veci (il colono o mezzadro).
  (2) Contadino (o, più esattamente, capo della famiglia colonica) che lavorava un podere, associato al proprietario con il contratto di mezzadria ora abolito. La mezzadria era un sistema di conduzione e tipo di contratto agrario per cui il concedente, cioè il proprietario di un fondo, e il mezzadro, si associano per la coltivazione di un podere e per l’esercizio delle attività connesse, al fine di dividere a metà, o in quote leggermente diverse, i prodotti e gli utili derivanti dal podere stesso.
  (3) Articolazione sindacale locale della CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro)
  (4) Area contigua alla casa rurale, in terra battuta o – più raramente - pavimentata in pietra, in mattoni o con un battuto di cemento, sulla quale si eseguiva la manipolazione e l’essiccazione dei prodotti agricoli.
  (5) Allontanamento dal podere che gli era stato affidato in conduzione ‘a mezzadria’.
  (6) Squadre di braccianti addette alla trebbiatura del grano, che si svolgeva spostando la trebbiatrice (la ‘macchina’) da un podere all’altro, dove i covoni del grano precedentemente mietuto venivano ammassati nei fienili e nelle aie.

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