martedì 26 aprile 2016

Riforma costituzionale: il commento dell'on. Alberto Pagani. "È stato fatto un buon lavoro. Perseguito da oltre 30 anni"

Diverse funzioni tra le Camere, snellimento dell'iter legislativo, riduzione dei parlamentari: idee discusse da 33 anni, che ora siamo in procinto di poter attuare. L'ultima parola spetta ai cittadini.

On. Alberto Pagani
 

La Camera ha approvato in sesta lettura, quindi in via definitiva, la riforma costituzionale: il lavoro del Parlamento è concluso e, a livello procedurale, la Costituzione è stata modificata. Per l'entrata in vigore della riforma occorrerà invece il voto favorevole dei cittadini che in autunno (probabilmente a ottobre) saranno chiamati ad approvare o meno il Ddl, il cui obiettivo principale è il superamento del bicameralismo paritario. 

La revisione modifica infatti il meccanismo secondo cui entrambi i rami del Parlamento esaminano tutte le leggi svolgendo identiche funzioni. Uno sdoppiamento che risulta ormai incongruo con le esigenze di una società in rapida evoluzione e in cui le decisioni vanno prese con attenzione ma evitando una duplicazione delle stesse azioni. La riforma introduce quindi un procedimento prevalentemente monocamerale e un bicameralismo differenziato. Il Senato diventa l'assemblea di rappresentanza dei territori e sarà composto da consiglieri regionali e sindaci scelti da ogni Consiglio regionale tenendo conto dell'esito dei voti territoriali. I 100 senatori (oggi sono 315) che siederanno a Palazzo Madama rappresenteranno dunque le regioni in misura proporzionale alla popolazione (l'Emilia-Romagna ne esprimerà 6). Dopo 70 anni viene archiviato il bicameralismo perfetto, il Senato riduce i suoi componenti e spetterà alla sola Camera il compito di votare la fiducia al Governo. Gli altri cambiamenti di maggior impatto sono la revisione del Titolo V e la modifica dell'istituto referendario. Nel primo caso, la potestà legislativa delle Regioni torna a essere “residuale”, essendo ascrivibile alle sole materie non espressamente riservate allo Stato, e viene meno la legislazione concorrente. Per quanto riguarda il referendum abrogativo sono introdotti due diversi quorum per la validità del voto: quando la proposta è stata sottoscritta da 500mila elettori serve la maggioranza degli aventi diritto; quando la proposta è stata sottoscritta da almeno 800mila elettori serve la maggioranza dei votanti alle precedenti elezioni politiche. La modifica vuole rendere più probabile l'esito referendario qualora l'abrogazione sia voluta da quasi 1 milione di cittadini. Per la sintesi dettagliata dei contenuti, rimando alla mia newsletter del 19 gennaio 2015 quando trattai ampiamente il Ddl, a questo link.
Qui vorrei invece fare alcune riflessioni politiche, dal momento che questo Ddl è stato impegno centrale di questa Legislatura e il giudizio che ne daranno gli elettori sarà ugualmente centrale.  
C'era davvero bisogno di rivedere la Costituzione? Sì. Pertanto ho sostenuto la norma e la sosterrò al referendum: il bicameralismo paritario non è più adeguato e abbiamo creato un'architettura più efficiente. Vorrei ricordare poi, a chi ritiene che modificare la Costituzione sia sacrilego, che non solo non è la prima volta che si cerca di farlo, ma non è neppure la prima volta che si cerca di differenziare il ruolo delle Camere. È del 1983 la prima Commissione bicamerale per la riforma della Costituzione, presieduta dal liberale Bozzi: la proposta riduceva il numero dei parlamentari e affidava in via prioritaria la funzione legislativa alla Camera (pur in un disegno in cui il Senato restava organo di rappresentanza nazionale dunque accordava e revocava la fiducia al Governo). Non se ne fece nulla: la Legislatura terminò anticipatamente e le Camere furono sciolte. La seconda Bicamerale è quella presieduta prima da De Mita e poi da Nilde Iotti, i cui lavori iniziarono nel 1992 e terminarono nel 1994 ovvero un periodo di intensi cambiamenti, con alle spalle Tangentopoli e l'agonia della cosiddetta “Prima Repubblica”. Tra le proposte: il rafforzamento del ruolo del presidente del Consiglio eletto dalle Camere a maggioranza assoluta (su modello del cancellierato tedesco); la riduzione a 4 anni della durata della Legislatura; una forte limitazione nell'adozione dei decreti legge. Anche in questo caso la Legislatura finì in anticipo e, nel 1994, arrivò il primo governo Berlusconi. La terza Bicamerale fu quella presieduta da Massimo D'Alema nel 1997. Tra le proposte: la riduzione del numero dei deputati e dei senatori; la differenziazione del bicameralismo con un sistema per cui le leggi potevano essere discusse in maniera bicamerale o prevalentemente monocamerale (con  primato della Camera a dirimere eventuali contrasti) o esclusivamente monocamerale (con norme discusse solo a Montecitorio); l'attribuzione di maggiori poteri al presidente del Consiglio. Dunque spunti di bicameralismo differenziato in cui si innestava l'idea di un premierato forte. La norma arriva in Aula ma a sorpresa Berlusconi chiede l'introduzione del presidenzialismo ribaltando gli accordi raggiunti e sfilandosi dal progetto che aveva detto di sostenere. Mancando i numeri, il 9 giugno 1998 l'allora presidente della Camera Violante annuncia che sono venute meno le condizioni politiche per proseguire la discussione. Dieci anni fa, invece, siamo stati chiamati al voto per decidere della riforma approvata in Aula dal governo Berlusconi. La differenza sostanziale con le esperienze sopra citate (e con la nostra esperienza) è che quella riforma non fu il frutto di un lavoro bicamerale, non fu l'esito di un dibattito tra partiti, ma una legge messa a punto da Berlusconi e da alcuni “saggi” del Pdl in una baita in provincia di Belluno, cioè in maniera a dir poco non trasparente, istituzionalmente parlando. La riforma inoltre era parecchio impattante visto che introduceva un sistema presidenziale (il presidente del Consiglio sarebbe stato eletto dai cittadini) e contemporaneamente riduceva le funzioni del Parlamento. Gli italiani per fortuna affossarono la norma (61,7% di voti contrari) che squilibrava l'assetto istituzionale facendoci passare, sostanzialmente, da una Repubblica parlamentare a una presidenziale. Oggi, per la prima volta, siamo quindi di fronte a una vera novità: questa Legislatura è riuscita a realizzare un Disegno di legge di riforma costituzionale attraverso una lunga discussione bicamerale iniziata oltre 2 anni fa, ha portato a termine  tutti i passi del dibattito parlamentare e ha messo a segno con ciò obiettivi legittimi e presi in considerazione da 33 anni a questa parte. Realizzare un sistema più snello per l'iter legislativo è infatti un'esigenza sentita da decenni. Senza modificare minimamente il fondamento parlamentare della Repubblica, questa revisione riduce poi il numero dei parlamentari abbattendo così anche i costi, cosa che magari metterà a tacere qualche demagogo. L'iter della discussione della riforma che presentiamo ai cittadini è quindi del tutto trasparente, si iscrive in una storia di tentativi, andati a vuoto, di superamento del bicameralismo perfetto e di revisioni costituzionali, e risponde a bisogni avvertiti da lustri senza snaturare il parlamentarismo. Ci siamo arrivati. Bene.
Detto tutto questo, pongo un'altra domanda: la riforma è perfetta? Probabilmente no. Come nessuna riforma e nessun modello istituzionale, neppure quello che abbiamo avuto per 70 anni: non esiste un modello privo di criticità. Inoltre non va dimenticato che il modello in sé è importantissimo quanto “vuoto”, ovvero va riempito dalla qualità politica della classe dirigente e dei partiti. Quindi sta poi a noi, tutti noi, far funzionare l'idea che lo conforma. Precisato questo principio, sempre e ovunque valido, ritengo però che il testo disegni un'architettura complessiva migliore di quella odierna. Per quanto riguarda il procedimento legislativo che si verrà a creare, ci sono alcune materie concorrenti tra le due Camere e alcune procedure non puramente monocamerali: rispetto a oggi il nuovo assetto garantisce in ogni caso un taglio dei tempi (se il Senato vuole dare il proprio parere su alcune norme deve farlo entro un periodo contingentato), la fine del raddoppio dei ruoli talvolta inutile e talvolta addirittura dannoso, una velocizzazione complessiva. La riforma reca con sé anche delle incertezze e non va negato che un cambiamento così poderoso comporti delle incognite. Ci sono dei punti, in riferimento al rapporto tra Camera e Senato nell'iter parlamentare, che senza dubbio dovranno essere chiariti e “rodati”. Ma qualsiasi cambiamento contiene, per definizione, margini di dubbio e, se si mette a confronto un testo che vige da quasi 70 anni e uno appena approvato, è ovvio che la prospettiva di giudizio sia distorta: la tradizione e la sicurezza (anche dei difetti consolidati) da una parte; l'innovazione e l'incognita dall'altra. Ma credo davvero che questa riforma possa rendere più semplice il funzionamento dell'attività legislativa quindi del nostro Paese. Ricordo poi che il bicameralismo non paritario è operante in molti Stati, come in Gran Bretagna, in cui le Camere non svolgono identiche funzioni, e in maniera diversa anche in Francia, dove la sola Assemblea nazionale può sfiduciare il Governo. Imperfetto è anche il bicameralismo tedesco: spetta solo al Bundestag dare o togliere la fiducia al Cancelliere e il Bundestag, con un voto a maggioranza qualificata, può sempre superare un voto contrario del Bundesrat (che rappresenta le Regioni) nel dibattito su una norma. Sono invece pochi, e di solito poco popolati, gli Stati che hanno una sola Camera (Danimarca, Paesi scandinavi, Portogallo). Difficile, infatti, pensare che un Paese con oltre 60 milioni di abitanti come il nostro possa essere rappresentato soltanto da un ramo parlamentare: sensato, dunque, aver lasciato il Senato rendendolo rappresentante dei territori e destinandogli competenze proprie. Con ciò, questa riforma è dunque “in asse” con molti Stati europei di dimensioni comparabili all'Italia. Il bicameralismo paritario, come ha giustamente ricordato il presidente del Consiglio Renzi nel suo intervento alla Camera, fu poi un elemento di grande discussione già in sede di Assemblea costituente nel 1946: non tutti erano d'accordo a creare un procedimento legislativo così appesantito. È evidente però che, all'indomani del fascismo, si scelse giustamente di dare priorità a una decisa vigilanza parlamentare. Ma faccio presente che già allora alcuni ritennero che si fosse creato un sistema legislativo lento, utile per uno Stato che dovesse compiere pochi atti normativi.
Un punto delicato è che la riforma approvata, se entrerà in vigore, sarà “abbinata” alla nuova legge elettorale, l'Italicum, che prevede il solo meccanismo di elezione della Camera e che concede un premio di maggioranza forte alla lista di maggioranza relativa. In molti ritengono che sarebbe stato meglio attribuire il premio di maggioranza alla coalizione e una parte dello stesso Pd chiede di rimettere mano alla legge elettorale per armonizzarla meglio con la riforma costituzionale e impedire che un solo partito abbia così peso a Montecitorio. Personalmente non ritengo che, anche stando così le cose (cioè senza rivedere l'Italicum), ci troveremmo in una situazione di scarsa garanzia democratica: l'Italicum più che altro dà maggior governabilità al Paese perché l'Esecutivo non sarà più ostaggio di maggioranze spurie; il Senato, poi, farà comunque da contrappeso da un punto di vista politico, sebbene con una funzione differente rispetto a oggi, ma evidentemente attiva e presente. Oltre a questo, però, vorrei sottolineare che la riforma costituzionale è un cambiamento di diverso valore rispetto alla legge elettorale: se è presumibile che quest'ultima possa anche essere nuovamente modificata da un'altra Legislatura, la riforma costituzionale ha un respiro che si vuole durevole. Dunque, intanto, occorre valutare il Ddl in sé e per sé perché è destinato – assai più della legge elettorale – a incidere sulla struttura politica. Faccio qui presente, infine, che anche nel combinato disposto di Italicum e riforma costituzionale previsto dal Legislatore, l'elezione del presidente della Repubblica risulta ben disciplinata perché è assai arduo che un partito da solo possa eleggere il capo dello Stato, ovvero il garante delle istituzioni. I quorum per l'elezione sono alti e non scendono mai sotto i tre quinti dei votanti e solo a partire dalla settima votazione, perché prima è dei due terzi dei componenti e poi dei tre quinti dei componenti.
Ultimo punto: il coinvolgimento delle forze politiche nella discussione. La riforma è stata ampiamente dibattuta: dal 7 aprile 2014 nelle sole commissioni Affari costituzionali delle due Camere ci sono state 173 sedute e oltre 4mila votazioni. Come si sa, Forza Italia dapprima ha sostenuto la norma poi ha deciso di sfilarsi (come da tradizione, verrebbe da dire) e, come si sa, la discussione interna al nostro partito è stata molto accesa, portando a correttivi anche rilevanti (tra cui la correlazione, nella scelta dei senatori da parte dei Consigli regionali, col numero di preferenze prese dai rappresentanti territoriali nelle elezioni locali o regionali). Da molti altri partiti di opposizione, purtroppo, sono arrivati invece 83 milioni di emendamenti, una cifra che rende chiaro quanto poco si fosse intenzionati a parlare del merito e quanto forte fosse la volontà di fare ostruzionismo. In questi due anni il Pd ha tentato di raggiungere una maggioranza più ampia di quella iniziale, ma (da parte del Movimento 5 Stelle e non solo) la risposta è stata spesso un atteggiamento di pura conservazione. Una conservazione che però non è utile a nessuno. Questa Legislatura, che viene dopo quella che si è aperta col Governo Berlusconi e si è conclusa con il Governo Monti, era chiamata a riforme strutturali: da crisi e stagnazione si esce solo cambiando. Anche le regole istituzionali, fondamentali per far funzionare meglio il complesso dell'azione politica. Negare che questo serva al Paese è una sciocchezza. Inoltre, si può essere d'accordo o meno con quello che il Parlamento ha votato (perché, ci tengo a ricordarlo, è il Parlamento ad aver approvato il Ddl), ma non si può dire che ci sia stato un deficit di democrazia. Il Parlamento, sulla base della Costituzione e seguendo le regole dell'articolo 138, l'ha modificata. Questo è quel che è accaduto. Ora non ha senso denunciare opacità inesistenti, soprattutto se la critica proviene da chi si è sottratto al confronto.
Auspico quindi che la riforma venga approvata anche dai cittadini, cui in modo sacrosanto spetta l'ultima parola, perché nel merito è una modifica migliorativa. Sicuramente non perfetta, ma capace di aggiornare il sistema bicamerale ai tempi reali della società. È stato fatto un buon lavoro. Perseguito da oltre 30 anni.

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