martedì 29 novembre 2016

Gli eroi non muoiono vecchi

di Adriano Sofri (l'Unità, 26 novembre 2016)

Un uomo sopravvissuto a se stesso, che si è tramutato in un monarca con successione dinastica
Bisogna morire giovani per essere amati con tutto il cuore. Come Camilo Cienfuegos, come il Che, che tanto giovane non era più. Fidel si è tenuto alla sua vecchiaia, e anche noi che gli sopravviviamo, e siamo tentati di rinfacciargliela. Quando desiderammo la rivoluzione ci sembrò di dover scegliere fra due modi, uno cinese, maniaco del metodo, e uno cubano, votato all’irregolarità. Teorizzarono ambedue la guerra di guerriglia, ma i cinesi erano glabri come porcellane e i cubani irsuti di barbe.

I rivoluzionari del Terzo mondo oscillarono fra gi uni e gli altri. Il modello cubano era spartito a sua volta fra due immagini: un eroe morto e un padre della patria vivo. Il Che non diventò mai un padre della patria, restò sempre un figlio, il beniamino. Un cubano di adozione, dunque il più cubano dei cubani, tuttavia sempre uno venuto dall’Argentina e incontrato in Messico e andato a farsi ammazzare in Bolivia. La superficie glabra dei ritratti cinesi sembrava confermare il luogo comune dell’impenetrabilità orientale.

Erano barbudos i cubani, nella loro foggia selvatica, in memoria della sierra e la selva. Barba e baffi sono così decisivi per Guevara che li taglia per travestirsi, all’ingresso in Bolivia, e somiglia così a un anonimo viaggiatore di commercio. Si capisce che, anche quanto a capigliature e vestiario, i giovani degli anni ’60 prediligessero i cubani. La rivoluzione, scrisse Sciascia, può fare a meno delle barbe, la contestazione no.

L’Unione Sovietica era fuori causa, esempio di rivoluzione tradita e di imperialismo mascherato di socialismo. I socialismi “non allineati”, ammesso che fossero presi in conto, sapevano di mezze misure e i rivoluzionari detestano le mezze misure. Fu molto amato il Vietnam di Ho Chi Min e di Giap, e i giovani arrivarono anche in Europa a immaginare di partire per battersi al loro fianco, come avevano fatto i (pochi) loro padri in Spagna, ma era una situazione troppo distante e singolare per diventare un modello. Restava la scelta: Cuba o Cina.
La Cina aveva rotto con l’URSS, denunciava il rinnegamento del Marxismo-Leninismo e i Partiti Comunisti legati a Mosca, a cominciare dal PCI. In Europa, i suoi legami si riducevano, oltre che ai tremendi partitini emme-elle rossi e neri, alla Romania di Ceausescu e all’Albania di Enver Hoxha. Una tirannia brutale e grossolana, e un’altra che aveva serrato il suo paese in una galera disseminata di bunker.
Cuba appariva libertaria, scanzonata e avventurosa, oltre che avventurista. L’avventura era il cuore del sogno rivoluzionario dei giovani occidentali fra gli anni ’60 e ’70. Si detestavano i ruoli predestinati, era passato poco tempo da una guerra mostruosa ma sembrava già abbastanza per prendersela con una pace ipocrita e una generazione di padri accomodati nella vita sazia. C’era lo scandalo per la fame e l’umiliazione degli ultimi della terra, che sempre deve ferire le nuove generazioni. C’erano altre guerre, tenute a distanza: il Congo, l’Angola, il Mozambico, infamie degli ultimi colonialismi, e l’Indocina prima francese poi americana. L’America era il nemico principale, anche per gli odiatori dell’URSS: cui si imputava anche che non combattesse abbastanza gli Stati Uniti. C’entrava anche la convinzione che con l’America e con le democrazie “borghesi”in genere la partita fosse aperta, mentre la tirannide sovietica sulla Russia e i satelliti sembrava incrollabile se non dopo che si fosse scosso l’occidente. Insomma: Cuba e Cina. Cioè Mao e Fidel… Anzi no: perché Cuba era stata ed era ancora Fidel o il Che. Una eccentrica reincarnazione della sfida di Stalin e Trotsky. Niente di paragonabile quanto al sangue versato, né quanto alla furia ideologica.

Le guerre per un paragrafo o per una traduzione che decimarono gli apparati bolscevichi non avevano spazio in una dirigenza cubana cresciuta senza vincoli dogmatici e tanto meno marxisti, in cui il comunismo fu un’adesione tarda e condizionata dall’esterno. Rossana Rossanda riferì di aver raccontato lei, con Karol, a Fidel Castro, che Trotsky era stato assassinato su commissione di Stalin, e lui ne fu sbalordito: eppure aveva vissuto al Messico, e Ramón Mercader, l’assassino di Trotsky, visse fra Mosca e Cuba, dove morì nel 1978.

C’è un economista qui? Era stato comunista Raúl, ma fra il Che e Fidel il più marxista caso mai era il primo, mentre il secondo all’origine era un avvocato legalitario e patriota. C’è quell’aneddoto formidabile, sulla riunione dopo la conquista del potere in cui Fidel chiede: «C’è un economista fra voi?», e il Che alza la mano e viene nominato sui due piedi direttore della Banca Centrale di Cuba. All’uscita il Che chiede a Fidel: «Ma come ti è venuto in mente di mettermi a capo della Banca?» e Fidel: «Ho chiesto se c’era un economista», e il Che: «Ma io avevo capito un comunista!». Il Che era la rivoluzione ininterrotta e la sua esportazione internazionale, Fidel il socialismo in un piccolo paese solo e il realismo politico addobbato di retorica. Una divisione dei compiti, o piuttosto una divergenza che ne avrebbe separato i destini e per Guevara sarebbe finita nel mattatoio della Higuera.

Il Che era il romanticismo rivoluzionario (così argentino!) combinato del resto con un militarismo guerrigliero spietato, lugubre e anche compiaciuto. Recitano le righe finali del messaggio alla Tricontinental di Algeri, 1967, «Creare due, tre, molti Vietnam: in qualsiasi luogo ci sorprenda la morte, sia essa benvenuta, purché questo nostro grido di guerra giunga a un orecchio sensibile e un’altra mano si tenda per impugnare le nostre armi e altri uomini si apprestino a intonare il canto funebre con il crepitio delle mitragliatrici e nuove grida di guerra e di vittoria». Il Che delle magliette e di un filone letterario e cinematografico di gran successo ha finito per diventare una specie di hippy poetico e sentimentale, che non era affatto.

E se è vero che un vibrar di chitarra si accompagna sempre alla voce dei rivoluzionari cubani e latinoamericani, bisogna affiancargli quel canto funebre e quel crepitio di raffiche, se non si vuole tradirne la verità. Tanto più che, pur nell’eclettismo che caratterizza i cubani, il Che fu il più impegnato nel tentativo di dare una sistemazione alle loro esperienze, dalla teorizzazione del “fuoco” guerrigliero al tentativo di elaborare rapporti economici più indipendenti dagli interessi e dagli incentivi individuali, al tempo in cui dirigeva la Banca di Cuba e ne firmava le banconote… A questa complicazione della figura del Che appartiene anche la più famosa e venerata delle sue espressioni: «Bisogna indurirsi senza perdere la propria tenerezza». L’accento batteva sulla seconda metà: senza perdere la propria tenerezza. Rassicurava chi si vergognasse della tenerezza come di una debolezza piccolo-borghese.

La durezza invece, ci si sarebbe vergognati di metterla in dubbio, così come la capacità di odiare il nemico. Autorizzava qualche sentimentalismo – mitra e social club e barbe lunghe e mal curate, la cifra latina in concorrenza con l’impassibile e liscia ideologia asiatica - ma lo riservava ai propri compagni, da ripagare con l’implacabilità verso il nemico. Il Che diventava dunque colui che si era ricordato della tenerezza. Però la frase andava letta anche a ritroso: bisogna intenerirsi senza perdere la propria durezza. Quando un ragazzo inerme, con un suo sacchetto di plastica, scherzò a costo della vita coi carri armati della Tiananmen il 5 giugno del 1989, segnò un passaggio d’epoca: e con lui il soldato alla guida del tank che rifiutò di travolgerlo.

Cosa resta – Gli eroi non diventano vecchi. Chi diventa vecchio smette piano piano di essere un eroe, e a volte tradisce del tutto la propria gioventù. Ce ne sono stati, di veri eroi, anche da noi: Carlo Pisacane, per esempio. “Sacrificio senza speranza di premio”. Quanto a Garibaldi, sulla cui filigrana tanta parte del mito del Che Guevara si è modellata, seppe tenersi alla larga dal potere costituito e invecchiare accanto al suo sacco di legumi a Caprera. Fidel è sopravvissuto di molto a se stesso, si è tramutato in un monarca, ha voluto una successione dinastica. I suoi sostenitori irriducibili hanno accettato di giustificargli tutto, in nome di una perenne condizione di necessità: l’accerchiamento, l’embargo yanqui… Ma le rivoluzioni che finiscono nella coda stretta del partito unico, del potere a vita, dell’intolleranza del dissenso e del sequestro di un popolo dentro le frontiere, rinnegano se stesse.

Quando, a dicembre del 2011, morì il Caro Leader di Pyongyang, Kim Jong Il, il blog di Yoani Sanchez raccontò che a Cuba erano stati indetti tre giorni di lutto e bandiere a mezz’asta, e paragonò il proprio paese a quella grottesca prigione a cielo aperto. Il paragone era troppo duro da sostenere, ma per un momento fu inevitabile giustapporre le formule nordcoreane –il Leader Perpetuo, il Caro Leader, il Leader Supremo- a quella di Castro, che pure voleva suonare di una benignità ironica: il Líder Maximo. Cuba è piccola, ed era proprio questo a segnare un punto per lei nella gara alla leadership rivoluzionaria. Perché la rivoluzione è sempre, al suo inizio, roba di minoranze. C’è una fierezza speciale nel piccolo David che ogni volta di nuovo affronta Golia. I cubani sono una dozzina di milioni. Erano sì e no sette milioni nel 1956.

Il Granma misurava 18 metri, era progettato per 12 persone, salparono dal Messico in 82, compreso il Che, Raúl Castro e Camilo Cienfuegos: allo sbarco e alla ritirata sulla Sierra sopravvissero solo in dodici. Due anni e mezzo dopo la rivoluzione aveva trionfato. Si capisce che avesse entusiasmato gli animi ribelli di tutto il mondo, e promosso impetuosamente l’idea che tutto fosse possibile, per chi fortemente volesse. “Soggettivismo”, l’avrebbe chiamato il marxismo-leninismo ortodosso, “avventurismo" ho letto da qualche parte: «Un ricciolo strappato al cadavere di Che Guevara da un agente della Cia fu venduto nel 2007 per centomila dollari». Mi auguro che fosse una notizia falsa, o almeno falso il ricciolo. A Cuba i pellegrinaggi politici non sono mai finiti del tutto, ed ebbero sempre anche, a differenza di quelli tetri e reggimentali in altri paradisi comunisti, un versante turistico. C’erano donne, mare, allegria, canzoni, la trasgressione che il regime cubano lascia sopravvivere anche nei momenti più odiosamente repressivi. Più probabilmente è la gente cubana che non viene piegata. È un fatto che Fidel – titolare del raccapricciante record ufficiale di attentati falliti a suo danno: 638 – è stato il meno ortodosso dei capi rivoluzionari. Provate a chiedervi che cosa resti delle leggendarie ore e ore di suoi discorsi, a parte la frase che pronunciò al processo per l’assalto al Moncada nel 1953: «La storia mi assolverà». Del Che gli scritti restano, Fidel è uomo da orali. Restano di lui, a lettere cubitali, degli slogan.

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