Sergio Staino, Direttore de l'Unità (31 dicembre 2016)
Sono qui da una vita, come storico vignettista. Sono qui da pochi mesi come imprevisto direttore, e non ne avrei abbastanza da tracciare un bilancio di fine anno, come si dice. Se non fosse l’esempio di Gentiloni, che è là da molto meno tempo di me, ed esattamente come me non ha la minima idea di quanto ci resterà. Allora dirò alcuni pensieri chiari.
L’ Unità è una gran testata. Ne ha passate di tutti i colori ma non ha mai rinunciato, anche quando veniva da scusarsene un po’, all’epigrafe: “Fondata da Antonio Gramsci”. Ora vivacchia, forse moricchia, ma io ho preso la cosa molto sul serio. Francamente, non mi sento circondato da altrettanta serietà d’impegno, in particolare in quel Partito Democratico che sembra dall’inizio incerto fra vivacchiare e moricchiare.
Che cosa intendo per serietà? Intendo misurarsi con i problemi, le minacce e le speranze, della condizione del mondo in cui viviamo, ciascuno di noi con una sua dose di passato e di futuro; e prima di tutto riconoscerli, quei problemi. Ciò di cui in genere campicchia la nostra vita pubblica è molto al di sotto.
Che la democrazia sia messa a dura prova e che la guerra (la guerra, non le guerre, che non hanno mai smesso di infierire) stia gonfiando le sue gote, pronta a soffiar via il presepio fragile che è la nostra convivenza, se ne sono accorti in tanti. Forse le persone comuni più degli addetti ai lavori, e gli addetti ai lavori spesso si limitano a dirottare per i loro fini mediocri o infami le paure confuse ma motivate delle persone comuni.
Le persone tengono l’orecchio sul suolo e lo sentono tremare per qualcosa di terribile che si avvicina. Spesso, cedendo ai suggeritori, scambiano i passi affannati di chi fugge dalla cosa terribile per la cosa terribile. Qualcuno, fra gli addetti ai lavori, pensa che la partita sia perduta, la partita della democrazia aperta, dell’Unione Europea, della libertà di movimento, della solidarietà con gli ultimi e dell’attenzione delicata ai penultimi.
Pensa che si debba solo ridurre il danno, rafforzare i propri recinti, fissare i turni delle sentinelle e aspettare epoche migliori, se mai la provvidenza le manderà. Penso piuttosto che la partita non sia perduta. Non è una petizione di principio, la mia. Non è un ottimismo della volontà, cui certo non bisogna rinunciare. È un ragionamento, e sarebbe perfino ovvio se non fosse invalso il panico, il si salvi chi può che affretta il disastro invece di arginarlo e mettergli riparo.
È stato l’anno della Brexit, di Trump, e di tutto il resto: l’alleanza reazionaria dell’Europa centro-orientale, già assetata di libertà, già protagonista delle primavere europee, appassite altrettanto rapidamente e più gratuitamente e avaramente di quelle arabe; la Francia sull’orlo lepenista; la demagogia qualunquista di Grillo, il vero antesignano di Donald Trump; lo stato di polizia turco, e tutto il resto, insomma. Invece di squagliarcela a gambe levate di fronte alla diga che ci crolla addosso, fermiamoci un momento e proviamo a vedere a che punto è la crepa.
Donald Trump ha guadagnato la presidenza degli Stati Uniti. Ma ha preso 2 milioni e 900 mila voti meno di Hillary Clinton. Hanno giocato col fuoco molti americani: quelli liberal che non hanno votato Clinton perché era troppo di establishment, quelli che Sanders, quelli che. Ha giocato col fuoco il capo dell’Fbi, prima facendo il buco poi mettendoci una toppa peggiore –non pensava certo che andasse a finire così.
Quando arriva il risultato si corre a trovargli delle buone ragioni e a mostrarlo ineluttabile, mentre fino a un’ora prima sembrava impensabile (e indecente). Purché non si esageri ora a riavvolgere il filo spezzato, e non si dimentichi che quel risultato è anche un incidente disastroso e un frutto di insipienze e irresponsabilità. Non siamo ancora agli anni Trenta del Novecento, e anche negli anni Trenta del Novecento non era detto che dovesse andare come andò.
La Brexit è stata una grande lezione, certo. Purché si ricordi che è stata soprattutto una grande lezione contro la meschinità stupida di un primo ministro che ha giocato la primogenitura per un referendum che valeva meno di un piatto di lenticchie. E contro l’incidente di capipopolo ed elettori che hanno ignorato il rischio, o ci hanno giocato, e poi ci hanno pianto sopra, perché non avrebbero mai voluto concorrere a un guaio simile, e hanno piagnucolato implorando, come i bambini dopo aver rotto il giocattolo, di ricominciare daccapo.
Che sia largamente andata così col nostro referendum non occorre dire. Un incidente vastamente gratuito, quello che gli slogan di una volta descrivevano come il sollevare una pietra per farsela ricadere sui piedi. Non occorreva farne una trincea ultimativa. Non aveva senso. Come con la Brexit. Ma gli incidenti, vorrete contestare, non sono mai solo fortuiti: sono rivelatori, sono il modo in cui le cose inevitabili si trovano un pretesto per avvenire. È vero. Ma solo in parte. Solo per una metà. L’altra metà dipende da noi, non è ancora giocata, può far finire la cosa da un lato o dall’altro del muro.
In Austria la marcia che sembrava inesorabile del giovane bullo sciovinista e xenofobo era stata fermata da un candidato presidente anziano, professorale, dignitoso e senza affiliazione di partito. Il candidato anziano, “ve rd e”, per giunta, arrivò primo. Sembrò davvero un incidente, un effimero passo falso della storia, sospinta dal vento forte della destra. Arrivò una banale irregolarità a consentire di correggere subito l’incidente. Si ripetè l’elezione presidenziale, coi barbari alle porte e i muri di fili spinati eretti a tenerli fuori: e l’incidente si ripetè. Il signore anziano e dignitoso vinse di nuovo.
Il giorno in cui in Italia si votava per referendum di stare di qua o di là –di qua o di là di che cosa, ciascuno avrebbe provveduto a dirselo. Chissà che cosa succederà in Francia. La sinistra, giubilato Hollande, si presenterà con 7 candidati, o giù di lì. Forse vincerà Marine Le Pen, forse François Fillon. Ci sembrava un sacrificio quasi insuperabile votare Juppé, come il male minore. E Juppé era lontanissimo dal traguardo. La verità è che il male maggiore può contare su noi.
La crisi della democrazia, la paura, la chiusura, il ritorno nella nicchia nazionale, la demagogia e l’avarizia, possono contare su noi. “Basta chiederci di votare per il male minore! E’ una vita che votiamo per il male minore! Non ce la facciamo più!” Be’, non è vero. È una vita che votiamo, o non votiamo, capricciosamente o vendicativamente. Si vota solo per il male minore, sempre, in verità. Il punto è saperlo riconoscere. E poi, fra un voto e l’altro, fare la cosa che si sa migliore. Per questo prendo sul serio l’Unità, appesa a un filo com’è, e tuttavia fondata da Antonio Gramsci. Era il mio bilancio di fine anno. Auguri a tutti noi.
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