Carmine Fotia (l'Unità, 5 marzo 2017)
Perché la sinistra deve fermare questa barbarie illiberale
Il mestiere dello Sciacallo è ben descritto in un film americano del 2014 (Lo Sciacallo-Nightcrawler) in cui il protagonista è un piccolo ladruncolo che un giorno ha un’illuminazione: si procura una videocamera e comincia a filmare le scene più cruente di incidenti e sparatorie per venderle ai network televisivi i quali ovviamente sono ben felici di poter mandare in onda materiale che fa salire l’audience.
Lo Sciacallo non si ferma davanti a nulla, fino a mandare a morte il suo più stretto collaboratore pur di rubare l’immagine del suo assassinio. Non ha alcuna etica se non quella del proprio interesse.
Di questi tempi, attorno al caso Consip, si aggirano branchi di Sciacalli, e sia chiaro che non mi riferisco assolutamente a Gianni Cuperlo il quale ha espresso un’opinione circa il ministro Lotti che è più o meno condivisibile (non la condivide per esempio Andrea Orlando che è il suo candidato alla segreteria) ma espressa, come sempre del resto, con lo stile misurato di un dirigente politico onesto e leale.
Sarebbe bene se pure l’altro concorrente, Michele Emiliano, coinvolto nell’inchiesta come testimone in quanto destinatario di un sms di Lotti che lo invitava a incontrare uno degli attuali indagati, chiarisse bene la sua posizione: c’era qualcosa di illecito in quel messaggio? E se sì perchè non lo ha denunciato subito? Se invece era del tutto legittimo, si impegni solennemente a togliere di mezzo le vicende giudiziarie dalle primarie del PD.
Mi riferisco a quanti, saltando su un’inchiesta dai molti risvolti quanto meno confusi, alimentano un clima mefitico e un assalto giustizialista con un obiettivo politico preciso: abbattere Matteo Renzi. Ma in gioco non è solo la leadership di Renzi, che se la dovrà riconquistare convincendo gli elettori delle primarie che lui sia ancora la scelta migliore. In gioco non è solo il futuro del PD ma, come ha sottolineato Emanuele Macaluso, la sottomissione della democrazia italiana alla deriva giustizialista.
Ci troviamo dinnanzi a un caso di charatcher assassination quasi da manuale. Intanto, l’ex-premier viene tirato in ballo senza che vi sia negli atti a noi conosciuti alcun elemento che lo colleghi ai presunti tentativi di corruzione da parte dell’imprenditore napoletano Alfredo Romeo per ottenere appalti dalla Consip (la centrale unica degli acquisti della pubblica amministrazione). Dicono gli Sciacalli: va beh, ma c’è il babbo di Renzi, Tiziano, indagato per traffico illecito di influenze.
E cos’è questo reato? È la pre-corruzione, ovvero quando Tizio promette a Caio di intervenire su Sempronio per fargli ottenere dei vantaggi illeciti in cambio di utilità varie in denaro o altro. Però questo reato scatta prima che vi sia scambio di denaro, poiché se lo scambio c’è diventa il più grave reato di corruzione. Non sono un giurista, ma lo capisce anche un bimbo che si tratta di uno dei reati più astrusi e fumosi che si possano immaginare, dove qualsiasi millanteria, non comprovata né da flussi di denaro, né da concreti interventi per ottenere qualcosa di illecito, diventa prova d’accusa.
Nel caso di Tiziano Renzi – al di là di quel che ciascuno possa pensare sull’iper-attivismo forse eccessivo del babbo dell’ex-premier – quali sono le prove? Un pizzino di Romeo, o meglio che i carabinieri del Noe, il nucleo operativo ecologico (sui quali torneremo tra un po’) attribuiscono all’imprenditore napoletano dopo averlo recuperato dalla sua spazzatura ma sul quale non è stata effettuata alcuna perizia calligrafica né di alcun altro genere, sul quale c’è scritta una cifra: 30.000 e un’iniziale: T. Per la procura di Napoli è la prova di soldi versati (senza alcun riscontro, finora) da Romeo a Renzi senior.
Poi c’è un’altra prova regina sbandierata dalla gazzetta delle procure, ovvero dal Fatto: un incontro segretissimo tra Mister X e Tiziano Renzi, avvenuto all’aeroporto di Fiumicino, nel quale il misterioso personaggio lo avrebbe avvertito di essere indagato e intercettato talchè la sera stessa egli avrebbe chiesto a un amico di chiamare Carlo Russo, il faccendiere che spende il suo nome con Romeo, dicendogli per favore di non chiamarlo più né di mandargli sms. Elementare Watson, direbbe Sherlock Holmes.
Peccato che, nell’interrogatorio reso ai magistrati, Tiziano Renzi avrebbe detto che si trattava di un appuntamento di lavoro e fatto il nome di Mister X. Resta però il gravissimo sospetto insinuato dai gazzettieri del regime delle procure: ma a chi la volete dare a bere? Chi si sobbarca un viaggio Firenze-Fiumicino nella stessa giornata solo per un normale appuntamento di lavoro? Beh, certo, essendo una distanza percorribile in un paio d’ore deve proprio avere motivi gravissimi per affrontare un simile lunghissimo viaggio. Poi ci sarebbe una cena con Romeo in una bettola romana riferita de relato.
Insomma, finora, solo ipotesi investigative per lo più chiacchiere ascoltate o riferite senza alcuna prova di atti concreti, che andranno provate nel dibattimento, però sono sufficienti a nutrire gli Sciacalli che infatti si lanciano sulla preda.
Beppe Grillo, leader politico con condanna definitiva per omicidio colposo plurimo, pur definendo “fuffa”, l’inchiesta, si avventa sul nemico Matteo accusandolo di aver rottamato il babbo, rinfacciandogli le parole dette a Otto e Mezzo: “Se mio padre fosse colpevole per lui ci vorrebbe una pena doppia”. Lo scopo di Renzi non era certo quello di accusare il padre, bensì di affermare che il fatto di essere suo padre non gli concedeva alcun privilegio e anzi, per paradosso, ne avrebbe semmai aggravato le colpe, qualora fossero provate. Un principio basilare per chiunque abbia ricoperto incarichi istituzionali, che devono essergli costate molta sofferenza, come si evince anche dalla risposta al comico pregiudicato, nella quale mostra i sentimenti di un figlio verso il padre.
Una così netta capacità di distinguere tra ruolo pubblico e affetti privati dovrebbe essere riconosciuta da tutti come una prova di lealtà alle istituzioni, con tutta la sofferenza che ciò comporta. E invece viene usata per descrivere un leader che sembra Frank Underwood di House Of Cards, cinico e spietato, pronto a sacrificare i propri affetti sull’altare dei propri interessi.
E veniamo al caso del ministro Luca Lotti accusato da due persone, Luigi Marroni, Presidente Consip e Filippo Vannoni, presidente di Publiacqua Firenze (entrambe vicine a lui e a Renzi) smentite categoricamente dal Ministro, di aver rivelato la notizia dell’indagine sulla Consip spingendo il presidente a far bonificare il suo ufficio scoprendo così le cimici fatte installare dalla procura di Napoli e facendo saltare l’inchiesta.
In verità, a fare acqua da tutte le parti è la gestione dell’inchiesta da parte del procuratore anglo-napoletano Henry John Woodcock (noto più per il nulla di fatto in cui sono finite tante sue inchieste che per le condanne ottenute) e del suo braccio operativo, il Noe dei carabinieri. L’unico reo-confesso di tutta la vicenda, il dirigente Consip, Marco Gasparri, che si autoaccusa di aver preso una tangente di 100.000 euro da Romeo, dopo che il suo avvocato scopre casualmente (?) i medesimi carabinieri intenti a mettere cimici negli uffici di Romeo a Roma, e dopo finte perquisizioni antidroga subite dal medesimo Gasparri; poi, un vorticoso circolare delle notizie sulle indagini non tutte evidentemente ascrivibili a Lotti, dal momento che la Procura di Roma, con un poderoso schiaffo al Pm napoletano, ha revocato la delega per le indagini al Noe. Roba che neppure l’ispettore Clouseau.
Non voglio inoltrarmi oltre nei particolari di un’inchiesta ancora neppure giunta nell’aula di un tribunale: per ora si tratta solo di ipotesi della procura tutte da provare.
Tuttavia il M5S e una parte delle opposizioni chiedono le dimissioni di Lotti. Non hanno i numeri perché Forza Italia, che smentirebbe altrimenti tutta la sua storia, ha già detto che non voterà la mozione di sfiducia al ministro. Quindi non dovrebbe esserci alcun rischio, dal punto di vista numerico, ma il punto non è questo.
È che, come ai tempi di Mani Pulite e del Raphael, all’azione giudiziaria si accompagna una deriva giustizialista: ieri il cappio in parlamento, oggi la gogna sul web. Ma così, a rimetterci non sono solo Matteo Renzi e il PD. È la democrazia italiana che muore.
In questi giorni sto vedendo una bellissima serie tv, The Man In The High Castle, tratta dal romanzo di fantascienza di Philip Dick, la Svastica sul Sole, un romanzo distopico in cui si immagina che la seconda guerra mondiale sia stata vinta da nazisti e giapponesi i quali si sono spartiti gli Stati Uniti d’America. Se immagino un paese in cui al governo ci siano gli stessi che difendono i propri esponenti quando sono indagati, come Virginia Raggi, e impiccano sulla piazza mediatica i propri avversari che si trovino nelle medesime condizioni; in cui il mood dell’opinione pubblica è determinato dalle gazzette delle procure; in cui le garanzie dei cittadini sono calpestate da un inedito intreccio tra politica e certe procure, dove il sospetto è l’anticamera della verità e la politica diventa il braccio armato dell’accusa, dando vita a un sistema totalitario. Ebbene, se penso a tutto questo, mi vengono i brividi e penso di essere nella distopia di Dick.
Poi però penso che, come nello stesso romanzo, altri mondi sono possibili. E allora mi vengono in mente i giudici che hanno assolto esponenti politici, imprenditori, semplici cittadini restituendo così fiducia nella giustizia che non può essere ridotta all’attività delle procure; penso ai milioni di cittadini che andranno a votare alle primarie e che possono così sconfiggere il giustizialismo; penso a chi quotidianamente si batte per la legalità. E mi dico che anche qui altri esiti sono possibili, che la barbarie illiberale non è detto che vinca, purchè questa volta la resistenza la facciamo noi, ovvero i cittadini di questo paese che non vogliono vivere immersi in un mondo kafkiano, che vorrebbero una politica libera dal malaffare ma non schiava del giustizialismo.
Una politica dunque capace di prevenire la corruzione aumentando la trasparenza e l’efficienza della macchina pubblica, separando nettamente politica e affari, e che torni ad essere proprietà non del leader di quel momento, ma di una comunità. Una sinistra che faccia del garantismo la sua bussola. Un sogno? Forse, ma non sono forse i bei sogni che scacciano gli incubi?
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