sabato 28 ottobre 2017

NOTE CASOLANE - Becch, arzibecch e becch arbattù

La Festa di San Martino in Romagna

Beppe Sangiorgi
(Il Senio, novembre 1985 – n. 24)

In Romagna, la sera del 10 novembre, vigilia di San Martino, era usanza ‘festeggiare’ i becchi, vale a dire i mariti le cui mogli avevano altri amori. Un drappello di buontemponi, armati di corni e campanacci, percorreva i vicoli male illuminati dei borghi in una singolare via crucis, preceduta da un alfiere che inalberava una zucca vuota e intagliata a mo’ di faccia, con i fori sinistramente illuminati da una candela. Con la circospezione dei congiurati (ma a volte anche a viso aperto) si portavano quatti quatti sotto le finestre dei cornuti e, schiamazzando, li chiamavano a gran voce. “Fóra i becch, fóra i becch” (fuori i cornuti, fuori i cornuti). L’appello era teso a raggruppare i partecipanti ad una corsa ideale nella quale i più dotati occupavano invariabilmente le piazze d’onore: “Becch, arzibecch e becch arbattù”.
Secondo lo studioso Paolo Toschi, l’antichissima costumanza va ricondotta nel complesso dei riti agresti che accompagnavano l’inizio del ciclo invernale che cade, appunto, l’11 novembre. Uno dei principi ai quali si ispirava l’inzio del ciclo annuale o stagionale era l’eliminazione dei mali che avevano colpito la collettività. Tra le forme più comuni di rimozione del male era la denuncia delle infrazioni alla legge morale e alla convivenza  sociale di cui si erano macchiati i componenti della comunità: tra queste le infedeltà coniugali, capaci di sovvertire l’ordinato sviluppo della vita associata.
A dire il vero, la denuncia, più che la moglie infedele, colpiva il povero marito ingannato, che quasi sempre reagiva in malo modo, perché il romagnolo mal tollerava (e tollera) il ruolo di becco. Non perché fosse stata tradita la fiducia riposta nella moglie, ma perché il suo comportamento fedifrago annientava socialmente e moralmente la figura del marito. Il tradimento appariva tanto più grave ed intollerabile per quanto una volta la donna era considerata inferiore all’uomo.
La vecchia costumanza di San Martino oggi non è più praticata: non perché manchino i motivi, bensì per una positiva e inarrestabile evoluzione del costume. Tuttavia il modo di pensare spesso stenta a tenere il passo del progresso così che, malgrado i pungolamenti femministi, la vecchia mentalità ancora sopravvive in qualche isola paesana. E lì, quando il vino ha sciolto la lingua e allentato i freni inibitori, capita di assistere ancora ad accalorate discussioni inframmezzate da sibilanti: “Côsa vôt savé te che t’si becch!” (Cosa vuoi sapere tu che sei cornuto!).
Alfredo Oriani
Emblematica della forma mentis tenacemente maschilista che impregnava, senza distinzione sociale o culturale, la società di fine ‘800, è una vicenda che ebbe per protagonista Alfredo Oriani, ritiratosi a vivere e a scrivere al Cardello; una casa padronale a due passi da Casola Valsenio. La concezione che l’Oriani aveva della donna e dell’amore, pur se espressa con appassionata ricchezza letteraria, nella sostanza non si discostava molto da ciò che pensavano i rozzi popolani coi quali si veniva a trovare gomito a gomito nei caffè e nelle osterie di Casola. Bastano, per capire il suo pensiero, alcune pagine di “Gramigne”, nelle quali Oriani tratteggia, sotto forma di consigli a un amico innamorato, il suo stereotipo di donna: infida, meschina, priva di qualità morali e intellettuali, attenta solo ai valori materiali della vita. E di fronte a un tale essere femminile si erge imponente la figura dell’uomo: “Il genio è inesorabilmente, fatalmente maschile …Ella è là, frivola, ignorante, guardando lui commossa da un affetto infinito …lo guarda ma non lo comprende”.
Al Cardello, Alfredo Oriani viveva con la sorella Enrichetta e Cosima, familiarmente chiamata Mina, una giovane domestica che nel 1891 gli aveva dato un figlio e che nella conduzione della casa egli aveva elevato al rango di moglie, pur non sposandola. Una notte, in una osteria di Casola, qualcuno riportò ad Oriani voci malevole che correvano in paese e che mettevano in dubbio la moralità della madre di suo figlio. Lo scrittore era molto tollerante verso i casolani, dei quali si riteneva una sorta di nume tutelare, prestandosi anche ad aiutarli nelle situazioni di bisogno. Tollerava anche che lo chiamassero ‘e matt de Cardell (il matto del Cardello) perché non era certo colpa loro se quei poveri valligiani non comprendevano l’ingegno di un tal compaesano che si definiva “l’unico letterato del villaggio”. Ma certo non poteva tollerare che in paese si sussurrasse di una infedeltà che impudentemente corrodeva la sua immagine di uomo e letterato. Oriani, istintivo e impetuoso come lo sanno essere i romagnoli, corse al Cardello e con violentissimi rimproveri scacciò la Mina nel cuore della notte, ordinando a Mingôn, un domestico tuttofare, di accompagnarla all’istante alla stazione ferroviaria di Castelbolognese.
Il fatto, come si può immaginare, ebbe una immediata eco in paese, dove si formarono le due schiere dei colpevolisti e degli innocentisti. La maggior parte dei biografi sostenne poi la tesi dell’innocenza senza però riuscire a provarla, talché ancora oggi a Casola Valsenio si può trovare chi sostiene, con congetture e testimonianze di seconda mano, l’una o l’altra ipotesi. In ogni caso, vere o false che fossero le voci, Alfredo Oriani non recedette più dalla decisione presa. Neanche dopo la partenza della sorella che lo lasciò solo con il figlio Ugo nella desolazione del Cardello. Una solitudine che, sommatasi ai fallimenti lettterari e alle difficoltà economiche, lo opprimeva dolorosamente, come confidava al cugino in una lettera del 1902: “Lei è partita: ha portato via i mobili e sta a Imola coll’altra. Sono solo, pazzo di solitudine e di disperazione: come vivere quassù? E Ugo, solo, che mi guarda e piange”. Oriani supplicò Enrichetta di tornare per il bene del figlio. “Egli non ha madre: tu devi esserlo per lui”. Ma all’altra, come la definiva, non perdonò mai: se non, pare, in punto di morte.

Nessun commento: