domenica 18 dicembre 2011

NOTE CASOLANE - Il Comune di Casola Valsenio augura Buon Natale pubblicando un inedito racconto di Giuseppe Pittàno (Pecio): "Natale 1943"

Casola Valsenio, Natale 1945. Giuseppe Pittano
L'Amministrazione Comunale di Casola Valsenio, a nome anche del Consiglio Comunale, ha rivolto a tutti l'augurio di buon Natale e di un felice 2012, pubblicando nel proprio sito web - per gentile concessione del figlio Massimo - un bellissimo  inedito di Giuseppe Pittano (Pecio) - scritto nel Natale 1945 - nel quale racconta la notte di Natale del 1943, trascorsa nel carcere di Ravenna dove venne rinchiuso dai fascisti repubblichini.
Per la migliore comprensione del racconto è necessario un breve inquadramento storico, che riprendiamo dal sito del Comune di Casola Valsenio: in seguito alla costituzione il 23 settembre 1943 dello Stato Nazionale Repubblicano (poi trasformato il 14 novembre in Repubblica Sociale Italiana), a Casola Valsenio vengono presi i primi contatti per formare un Comitato di Liberazione Nazionale. In casa di Guido Ricciardelli, Giuseppe D’Alema che fa parte del gruppo dirigente della Federazione comunista di Ravenna, si incontra con Giuseppe Pittàno (Pecio) e Filippo (Gigi) Pirazzoli costituendo un primo nucleo attorno al quale costruire il CLN casolano.
Il 5 ottobre, per sollecitazione di Ugo Oriani, alcuni esponenti dell’antifascismo casolano (Ricciardelli, Pittàno, Pirazzoli e Amilcare Mattioli) si incontrano al Cardello con alcuni capi fascisti con lo scopo (secondo Ugo Oriani) di trovare un’intesa che permetta di non instaurare, almeno a Casola, un clima di odio fratricida.
L’incontro però non porta ad alcun risultato, se non a mettere in chiaro la posizione dei presenti.
Così che, immediatamente dopo la costituzione ufficiale del Fascio Repubblicano di Casola Valsenio, avvenuta il 18 novembre 1943, si apre la caccia agli antifascisti che si sono maggiormente esposti. 
Amilcare Mattioli riesce a sfuggire avventurosamente mentre Guido Ricciardelli, Gigi Pirazzoli e Giuseppe Pittàno, sorpresi in casa, vengono trascinati per il paese ammanettati e quindi incarcerati a Ravenna, dove rimangono alcuni mesi.

Infine, una citazione degna di nota. Nel racconto Pecio descrive una suggestiva tradizione natalizia casolana: l’accensione di un rametto di ginepro nella notte di Natale.

Buona lettura... e Buon Natale a tutti!


Natale 1943
di Giuseppe Pittàno (Pecio)


E’ pallido il meriggio, umido, assorto. Sulle pareti biancastre della cella, c'è un chiarore vago, riflesso di neve che non vedo ma che sento nel silenzio lontano e percepisco appena dal rintocco un po' spento di qualche orologio.

C'è neve di Natale, della Vigilia.

Nella cella è tacito il meriggio; sulle brandine a muro, sui pagliericci umidi anche di pianto, è un respiro lento di corpi che sembrano assopiti, sulle palpebre socchiuse, nebbie di pensieri lontani.

I miei amici dormono o fingono di dormire. Accendo nella pipa l'ultimo mozzicone di sigaretta. Due boccate di fumo escono pigre, pencolano, vagolano, si disperdono nell'aria già pesante e svaniscono lassù verso l'inferriata. Mi scuoto, distendo le gambe sotto la coperta, un leggero scricchiolio di giunture, brividi di freddo per tutte le membra, forse, fuori c'è neve di Natale... della Vigilia.

Cella numero 24... cella numero 28...

I passi delle guardie si avvicinano, il monotono tintinnio delle chiavi agitate accompagna il battere insolente di cancelli che si chiudono. Allungo le gambe indolenzite, fino a terra, barcollo sui piedi diacci e m'avvicino alle sbarre di ferro. Gigi sta sbadigliando, l'altro dorme. La chiave è già nella toppa e la voce rauca del caporeparto legge l'indirizzo della posta della cella numero 35. Allungo le mani, afferro il pacco e mi getto sulla branda. Un pacco… una lettera… Gigi sta aprendo un involto e 1'altro, giratosi verso la parete, finge ancora di dormire. Non sento più il freddo ora; le mani rompono la carta e frugano confusamente: due aranci e un po’ di torrone, un pacchetto di sigarette, una busta piccola, qualcosa che punge. La lettera è stata aperta dalla censura, nella busta un ramoscello di ginepro, due bacche un biglietto di mia madre; tracce di lacrime hanno assorbito e disperso qualche lettera.

Caro Peppino, è Natale domani anche per noi; ma che Natale! C'è tanta neve sui monti e tanto freddo nella nostra casa. Walter si è consegnato per non comprometterti; è partito piangendo, forse domani raggiungerà Pola. Babbo e Valerio sono muti; il dolore delle vostre sventure ha pietrificato il volto di tuo padre, i suoi occhi non hanno lacrime ed è troppo grande la sua solitudine. Alberto mi ha assicurato che in giornata uscirai e non ci resta che aspettare questo giorno; ma come lunga è l'agonia di quest’attesa. Ti mando questo ramoscello di ginepro dei nostri boschi; bruciandolo questa notte nella tua cella, penserai a noi; è tradizione ed augurio bruciare il ginepro la Notte Santa. Buon Natale da tutti, baci.
Tua madre.

A stento trattengo le lacrime, un grosso nodo alla gola mi stringe. Gigi ha finito di leggere, i suoi occhi sono umidi. Apro nervosamente il pacchetto di sigarette, ne accendo una e apro l'altra lettera:

Caro Professore, ogni mattina lo attendiamo all'angolo della scuola e ogni giorno ci porta una delusione. Possa il Natale portare la pace a lei e a noi la gioia di saperlo presto felice. Gli scolari della III D.

Infilo le lettere nelle tasche dei pantaloni e fumo disperatamente. L'altro sì è alzato e guarda distrattamente all’inferriata. Sono le cinque pomeridiane. Le ultime luci del giorno salgono su lungo le pareti, sui vetri lievemente bagnati di sudore e pare cristallo opacato quel piccolo spazio di vetro appannato contro il cielo fra le sbarre dell’inferriata. E’ triste l’ora del passaggio nel buio della notte, in questa tetra parte di spazio; è un crepuscolo amaro di pianto, grave di silenzio e troppo grave è la voce di questo silenzio e vivo il desiderio di spegnerla questa voce.

Il siciliano chiama il paisà del piano superiore: Totò,Totò… Nella nostra cella è Gigi a rompere il silenzio:

- Beppe, mi ha scritto mamma c’è neve a casa nostra.

- A anche a me ha scritto mia madre; c’è neve a casa nostra.

- Beppe, domani è Natale; questa notte le nostre madri andranno a Messa e piangeranno insieme… ci saranno anche Mina e Maria Rosa a Messa.

- Sì, Gigi.

E’ l'ora delle confidenze, quando le lacrime tremano nella voce e la conversazione si fa lieve, come lieve è la voce della Vigilia.

- Beppe, ricordi la Veglia dello scorso anno?

- Sì, Gigi.

- E il Presepe al Convento dei Cappuccini… com'era bello quando eravamo piccoli.

- Sì, Gigi.

I ricordi sostano per poco e sfumano come le ombre sulla parete già scura.

L'altro ascolta; anch'egli ricorda; vorrebbe parlare. Di chi? se neppure due righe gli sono giunte per dirgli che domani è Natale?

E' buio ormai. Sui pagliericci grigiastri si distinguono appena le sagome scure dei nostri corpi e un poco di volto all'interrotto chiarore della brace della sigaretta.

Qualche passo nei corridoi e la luce si accende finalmente, per poco però, appena il tempo sufficiente per finire quel tozzo di pane, per ingoiare un sorso d'acqua diaccia dal boccale screpolato e per riordinare la branda, per leggere di nuovo quelle poche righe di mia madre e riporre la busta sull'assicella che esce dal muro nell'angolo sotto la finestra. Per il corridoio incomincia il monotono tintinnio delle inferriate battute secondo le norme carcerarie; bisogna alzarsi, irrigidirsi sulle gambe, rispondere all'appello del capoguardia, ascoltare il rumore assordante della propria inferriata battuta, guardare al cancelletto e alla porta che si chiudono per l'ultima volta nel giorno e rassegnarsi alla lunga notte, fredda, senza luce.

Ed è la notte della Vigilia...

II pagliericcio è umido, sporco; un brivido di freddo scorre per tutte le membra; nascondo il capo sotto le coperte e mi raggomitolo contro la parete.

Le campane del duomo chiamano a vespro per l'ultima sera d’Avvento, per la grande attesa e fra poco nelle cripte semibuie accenderanno le luci calde, raccolte della Natività, mentre noi forse dormiremo il sonno di Natale. Le campane tacciono ora, è silenzio profondo; avverto appena il mio respiro sull'umido guanciale; non posso dormire, non voglio dormire almeno stanotte, perché è notte di Vigilia; forse domani all'alba non sentirò le campane, ma ora non voglio dormire.

Oh, come è bello vegliare, così, cogli occhi sbarrati nelle tenebre per fissare fantasmi che passano e sostano incerti sulla nostra pupilla che credono spenta e l'illusione si posa lieve sulle nostre labbra, sul volto rasserenato.

E’ notte di Natale.

Al mio paese c'è tanta neve, sulle colline, sui pini, sui tetti della mia casa, qualche traccia di scarpe sulla soglia, un battente socchiuso, qualche sprazzo di luce sulla neve che cresce e nevica ancora vicino ai fanali... sui vetri della mia finestra e accanto al fuoco, sul seggiolone a braccioli, mio padre, Valerio che legge il giornale, e Mamma accanto al lume a cucire... un ramo di ginepro nell’angolo accanto al camino, due coccole per terra, qualche foglia aghiforme, stecchita... poi scalpiccio di scarpe sull'entrata, la porta socchiusa adagio, adagio. E’ lei, Teresa, pallida come la neve dei presepi…

E Walter, lontano la testa appoggiata in un angolo buio della tradotta, colla bustina calata sugli occhi che piangono nel silenzio, nella finzione del sonno, il Natale lontano da casa, vestito da guerra… ed il treno corre sulle rotaie e squarci di luce fuggitivi sulla neve. E' triste il vagone, come questa cella, Walter, prendiamoci per mano come quando eravamo piccoli e fuggiamo, Walter! E’ meglio morire di freddo là fuori, coi piedi laceri per gli sterpi stecchiti dal ghiaccio, cercando Betlemme... Sulla strada coperta di neve, sonagli di cavalli, la lanterna che dondola lenta sotto il carro, l'ombra dei raggi delle ruote sulla neve e là, sotto la roccia, nella grotta, su un poco di fieno, il Bimbo dei poveri che sorride... Oh, come è caldo qua dentro. Vedi, Walter, attorno al Bambino c'è mamma e lei, Teresa, cogli occhi lucidi e tanti visini attoniti, stupiti... Renato che recita il sermone, Franco che sorride; ad uno ad uno ecco i miei scolari. Mi chiamano: - Non viene, Professore?

Portatemi con voi, via, fuori di qua, non conosco la via, ovunque c'è un cancello.

Perché non rompete le sbarre, le sbarre, le sbarre, si fanno più fitte scomparso, è Betlemme… Una porta di ferro è rimasta contro la quale le mie dita consunte e grondanti di sangue, si agitano invano disperatamente. Aprite la porta, aprite, aprite.

-E Walter dov'è?

D'un balzo mi desto, Le coperte sono a terra, le mie dita stringono convulse i ferri della branda; ho dormito, ho sognato ad occhi aperti vegliando il Natale.

E’ notte già alta, neppure un barlume di luce, di stelle; neppure un rumore di passi che già sia Natale? Ma no, non può esser nato, non sento stormire a festa le campane e poi... si, lo saprei, non posso aver vegliato per nulla. Ah, no; ecco lontano, l’orologio di piazza scocca lentamente le 23.45. Mettiamoci in via, andiamo a Betlemme, cerchiamo la stella.

Mi getto la giacca sulle spalle infreddolite, mi alzo adagio, adagio per non destare i miei compagni che dormono e, brancicando nel buio, cerco l’assicella sporgente dal muro sotto la finestra. Le mie mani palpano lievi: un involto, un pezzo di pane, le sigarette, i fiammiferi ed ecco finalmente la busta, uno spino che punge, qualcosa che punge e un profumo di ginepro. Nell'aria si avvicinano le note disperse di una melodia, poi tutto è musica, è Natale. Suonate, campane! Anche nella mia cella è nato il Bambino, lì, nell'angolo sotto l'assicella che sporge dal muro. Bisogna scaldarlo questo povero piccolo; le mie mani tremanti sfregano sulle pareti un fiammifero, un altro, un altro ancora ed ecco finalmente uno sprazzo di luce, uno scoppiettio di piccole foglie appuntite, di coccole arse, un profumo sottile di resina e un tremulo luccichio di piccole perle in quel tenue chiarore di fiamma, di piccole perle che tremano e scendono calde lungo le guance.

Nella notte è tornato silenzio, il Bimbo é già nato, è passato anche dalla mia cella, c'è rimasto il tepore del suo sorriso e qualcosa che stringo fra le mie dita, qualcosa che é tiepido, profumato come una goccia di incenso.

All’alba, quando le prime luci pallide portarono la festa, nelle mie dita due bacche profumate di ginepro.
Sono questi i miei ricordi, oggi, nell'imminenza di un altro Natale (altro per il tempo che da allora ad oggi è caduto su di me e su tutti gli uomini; altro per il diverso umore dei nostri animi rumore tracciato a fatica, Con pena; perché, pur avendo trovato la madre e altri scolari, Walter non l'ho più ritrovato, neppure il suo corpo che giace nell'Istria lontana, solo) e il partecipare a voi questi miei ricordi mi dà un poco di sollievo.

1 commento:

Massimo ha detto...

Cari Casolani, credo che questi siano gli auguri più belli che mio babbo abbia mai potuto fare a voi e al suo paese: Storia, tradizione e sentimento.
I commenti e ringraziamenti che mi sono giunti mi fanno sentire fiero ed ancora casolano.

Vi auguro buone feste.