martedì 7 maggio 2013

"Archiviare il «ventennio», ricostruire il sistema politico"

di Giovanni Pellegrino

Più che sulla sua durata il governo Letta chiama il PD a scommettere (forse con qualche azzardo) sulla effettività di un salto generazionale; chiama cioè a interrogarsi sulla capacità di una generazione così largamente rappresentata nel nuovo governo di introiettare fino in fondo un giudizio negativo sul bipolarismo muscolare, manicheo e tutto sommato inconcludente, che ha segnato l’esperienza politica della seconda Repubblica, cui il direttore de l'Unità, Claudio Sardo, ha addebitato la responsabilità di aver «fatto precipitare l’Italia nel burrone».

Pure da tanti a sinistra è nutrita (anche se a volte non apertamente confessata) la preoccupazione non tanto di aver concorso alla nascita del nuovo governo, quanto di averne affidato la durata e le sorti a Berlusconi, consegnando nelle sue mani una spina, che può in ogni momento essere staccata, facendo riprecipitare il Paese nell’asprezza di un confronto elettorale, in cui il leader del centrodestra sa di poter dare il meglio di sé.
È però innegabile che dalle elezioni in poi Berlusconi abbia indossato le vesti per lui inconsuete dello statista preoccupato delle sorti del Paese, pensoso sulle difficoltà economiche di famiglie e imprese, pronto ad anteporre il bene comune all’interesse di parte. Ma è anche vero - come insegna l’esperienza del passato - che Berlusconi è Zelig, pronto da un momento all’altro ad indossare una maschera diversa, cancellando in brevissimo tempo la memoria di ciò che è appena stato, riportandoci al voto.
È questo un pericolo immanente, che incombe sul nuovo governo: fingere che non ci sia, è pericolosa illusione. Per neutralizzarlo è necessaria la concorrenza di due fattori: l’uno è la capacità del governo di incontrare rapidamente il favore popolare con prime scelte efficaci; l’altro, forse ancora più importante, sarà la capacità del PD di concorrere alla elaborazione di una cultura nuova, che renda generale l’aspirazione ad una Italia normale, sinora nutrita da pochi, fatalmente destinati ad essere fraintesi in un quadro generale permeato da faziosità e settarismo.
L’attenzione di Berlusconi agli indirizzi dell’elettorato è nota; e questo può valere come antidoto efficace al suo trasformismo, dissuadendolo dallo staccare la spina al governo, che ha contribuito a far nascere se avrà timore che il corpo elettorale lo punisca per aver riportato la notte nell’alba appena spuntata di un tempo nuovo.
Né è vero che vivere questo tempo costringa la sinistra italiana a non essere più se stessa, chiudendola nel recinto di un moderatismo, che non le può appartenere. È vero se mai il contrario, perché la complessità della crisi, in cui l’Europa è impantanata, spinge con la forza delle cose ad affidare la ripresa a scelte di politica economica, che attenuino situazioni di diseguaglianza ormai non più tollerabili. Perché solo una crescita di redditi più bassi può costituire incentivo reale alla ripresa dei consumi in un momento in cui sono chiaramente entrate in crisi, non solo in Europa, ma nel mondo, le dottrine di un neoliberismo, che negli ultimi venti anni la sinistra non è riuscita efficacemente a contrastare.
Poiché appare davvero difficile negare un complessivo segno di sinistra a molte delle misure preannunciate da Enrico Letta, i tempi che immediatamente ci attendono, ben possono consentire alla sinistra italiana il recupero di una identità smarrita nella confusione dell’antiberlusconismo viscerale e cioè della contrapposizione alla persona dell’avversario più che alla visione del mondo, di cui lo stesso era portatore.
Sono trascorsi nove anni da quando in un agile libretto chi scrive affidò ad un amico giornalista la valutazione che da Salò a Berlusconi l’Italia politica aveva vissuto in un sempiterno clima di guerra civile, che era opportuno superare nell’interesse generale del Paese.
La valutazione sembrò a tanti, soprattutto a sinistra, un azzardo o peggio una spregiudicata tendenza personale al compromesso e all’inciucio. Dopo nove anni il discorso di Giorgio Napolitano al Parlamento, che ne ha votato la rielezione, e la nascita del governo in quel discorso auspicato nutrono la speranza di essere all’inizio di una stagione nuova e aiutano a vincere lo scoramento di dover collaborare con una controparte politica, che a vivere i tempi nuovi sembra abbastanza inadatta, perché affollata da personaggi che troppe volte hanno dichiarato di non voler fare prigionieri in caso di vittoria.
L’esito elettorale, pur deludente, ha lasciato quindi aperto alla sinistra italiana un sentiero che merita di essere percorso sino in fondo; come sarà possibile soltanto se il Paese riuscirà ad elaborare una cultura capace di consegnare al passato l’esperienza del ventennio appena trascorso. È questo un compito che supera i confini del nuovo governo e della maggioranza parlamentare che lo sostiene, chiamando ciascuno a darvi un contributo.

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