martedì 7 maggio 2013

"Società e territorio, non solo istituzioni"

di Stefano Balassone

Alfredo Reichlin ha ragione. Un partito smarrito, diviso e in asfissia di idee si salva se solleva lo sguardo da se stesso e guarda alla funzione nazionale che il destino gli ha oggettivamente consegnato. Un tempo l’unità, poi la ricostruzione e la seconda industrializzazione, oggi attrezzare l’Italia, in Europa, al rapporto col Mondo delle nuove superpotenze economiche e militari.
Non è lo spazio politico e storico che manca. Il punto è se il partito materiale e incarnato, che non è figlio della storia, ma di tante storielle autoreferenti (catoblepismi autofagi, direbbe Fabrizio Barca) sia in grado di guardare al di là, non pretendiamo sopra, del proprio naso. Dopo tanti anni di ossificazioni progressive, direi di no, e il problema lo vedo non tanto nella convivenza giustapposta delle provenienze ex Ds, ex Ppi etc, quanto nella strozzatura del rapporto fra partito e mondo esterno (che già a chiamarlo così rivela un problema).

Ho cercato di parlarne su Huffington Post pochi giorni fa: «La carica dei 101 e la natura reale del PD», e dai commenti ricevuti mi pare di aver incrociato una persuasione diffusa. Del resto, i consensi riscossi dalla «rottamazione» di Renzi, a colpi di ariete, non sarebbero spiegabili, ve lo dice uno che ha votato per Bersani, se non esistesse un tale muro. Se quel muro non viene abbattuto, e ci vuol altro che le primarie parlamentarie che anzi lo consolidano, il PD non potrà essere altro che un insediamento opportunistico di professionisti del politicantismo.
Cioè un luogo di degrado della politica. Il punto è se è come sia possibile far uscire il PD progettuale dal se stesso stanziale. Barca propone il «partito palestra», capace di «sperimentalismo democratico» e «mobilitazione cognitiva», contro le «elite estrattive» (fra cui gran parte dello stesso personale del PD). Capisco che sia costretto a proporre un linguaggio nuovo e - transitoriamente - astruso tanta è la necessità di segnare una discontinuità con la attuale realtà basata sulla simbiosi fra partito e istituzioni. Cercando di immaginare un percorso, scarterei l’utopia di conquistare puramente e semplicemente, con una bella parata di chiacchiere congressuali, quel che c’è a quel che dovrebbe essere.
E penso che una nuova legge elettorale basata su collegi assai ristretti, sia uninominali a doppio turno, come preferirei, sia proporzionali con preferenze (come possibile compromesso, purché i collegi siano molto piccoli), sia il passaggio essenziale. È lì che si decide la natura del partito. Perché in tal modo le candidature saranno contendibili da parte di pezzi auto organizzati del tessuto sociale, e dunque tanto meno conteranno gli attuali signori delle candidature.
E tanto più il partito sarà spinto ad alzare gli occhi al progetto piuttosto che a coltivare, con l’abuso degli incarichi istituzionali, gli orticelli di tessere che ne perpetuano il controllo. Perché una cosa abbiamo imparato: che sono le regole istituzionali a dare l’imprinting ai partiti, e non viceversa.

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