mercoledì 3 luglio 2013

Quello che accade in Egitto ci riguarda

"Una polveriera: è quello che rischia di diventare l'area del Maghreb nel caso in cui le parti in causa non scegliessero il dialogo ma optassero per la prova di forza" , così Andrea Manciulli, deputato PD, vicepresidente della commissione affari esteri della Camera dei deputati.
"Si tratterebbe di una eventualità che nessun sincero democratico, interessato alle sorti dell'Egitto e del suo popolo, può augurarsi. Ci troveremmo di fronte a una pericolosa reazione a catena, a una escalation i cui esiti provocherebbero instabilità politica e minacce alla sicurezza globale".
E' per tutto questo - conclude il parlamentare del PD - che chiediamo alla comunità internazionale che si adoperi in tutte le sedi possibili perché accompagni il processo di transizione democratica e la ripresa di un serio dialogo nazionale. La soluzione politica è l'unica strada da percorrere".
In piazza Tahrir si gioca il futuro del Nord Africa
di Antonio Panzeri
Due anni e mezzo dopo l`inizio delle proteste che portarono alla cacciata di Mubarak (25 gennaio 2011), piazza Tahrir torna a essere il luogo dove, ben più che nelle urne elettorali, si gioca non solo il futuro dell`Egitto, ma probabilmente di buona parte dei Paesi nordafricani. Le preoccupanti notizie che giungono dal Cairo, con il bilancio - già tragico eppur ancora provvisorio - di morti e feriti, le foto di milioni di persone in piazza con il «cartellino rosso», trasposizione metaforica presa dal mondo del calcio che sempre più interagisce con le proteste dei popoli (come nel caso della Confederation Cup in Brasile), sono emblemi di una battaglia in cui la posta in gioco va ben oltre il contingente. Tre elementi meritano la nostra osservazione.
Il primo è che la popolazione egiziana non è disposta a rinunciare al futuro che ha sognato liberandosi di Mubarak. Preso atto che le elezioni vinte dai Fratelli Musulmani e il governo del tentennante Morsi ritenuto loro ostaggio non sta producendo i risultati sperati in economia e l`Egitto rischia una regressione in termini di laicità e diritti, i sostenitori della «minoranza elettorale» del Fronte Nazionale di salvezza tornano in piazza per dimostrare di essere «maggioranza politica».
Il secondo è che questa volta la protesta non ha leaders riconosciuti: al fondo c`è la semplice piattaforma del movimento di protesta di base Tamarrod, e anzi i maggiori esponenti dell`opposizione - riconoscendo seppur timidamente che le loro divisioni, i loro personalismi ed i loro errori hanno favorito la vittoria musulmana - restituiscono al popolo e alla società civile il palcoscenico.
La terza, vexata quaestio, riguarda il ruolo dell`esercito e degli Stati Uniti. Mai come oggi l`Egitto rischia uno scontro frontale tra avanguardia e tradizione, e il pericolo di guerra civile, seppur strisciante, esiste. Come sempre, il ruolo fondamentale lo giocherà l`esercito, che come è noto, rappresenta una parte rilevante del Pil del Paese, ed è sostenuto economicamente dagli Stati Uniti. Che a loro volta avevano apertamente sostenuto Morsi, salvo rettificare recentemente la linea con una esplicita dichiarazione di Obama, «gli Stati Uniti non si schierano con nessuno in Egitto». Che se da una parte testimonia il crescente disimpegno internazionale americano, almeno in questo scacchiere, dall`altra mette Barack Obama di fronte a un bivio: o rispondere alle aspettative di aiuto di molti popoli in cerca di «riscatto democratico», o vedersi etichettato come l`uomo che non ha mantenuto le promesse, come gli stanno ricordando i manifestanti in Sudafrica.

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