lunedì 14 settembre 2015

Riforma costituzionale: l'autunno caldo comincia a Palazzo Madama

di Alberto Pagani (Deputato PD)
Tensioni tra una parte del PD e l'Esecutivo sul testo della revisione del Senato: dobbiamo trovare un compromesso ragionevole, non sfasciare l'architettura istituzionale fin qui costruita
L'autunno “caldo” della politica riparte a Palazzo Madama, dove la commissione Affari Costituzionali sta riesaminando la Riforma del Senato e del Titolo V sulle competenze Stato-Regioni. Il testo è già stato approvato in prima lettura da entrambi i rami del Parlamento, che fin qui hanno condiviso le scelte di fondo che caratterizzano il Disegno di legge. In particolare: la fine del bicameralismo perfetto, ovvero il sistema che impone che ogni provvedimento sia ugualmente letto, discusso e votato da entrambe le Camere; la creazione di un Senato delle autonomie, formato da 100 membri e non più 315, e che sia rappresentanza delle “istituzioni territoriali” laddove alla Camera resterà il compito di “rappresentare la nazione”. Solo i deputati pertanto verranno votati dai cittadini nell'ambito delle elezioni politiche.

Questi due principi (fine del bicameralismo perfetto e Senato dei territori), ampiamente dibattuti, si sono configurati nel dettato della legge in alcuni articoli che incarnano notevoli cambiamenti rispetto a quello che abbiamo conosciuto dal dopoguerra a oggi. Ad esempio: al Senato spetterà, in buona sostanza, la facoltà di discutere quasi esclusivamente le leggi che riguardano gli enti territoriali (ci sono poi eccezioni  regolate con tempi e modalità molto puntuali a seconda del provvedimento in questione); diventeranno senatori coloro che, tra consiglieri regionali e sindaci, verranno eletti dai Consigli regionali. Saranno questi ultimi quindi, e non più direttamente i cittadini, a esercitare l'elettorato attivo per scegliere chi andrà a Palazzo Madama tra coloro che già occupano un ruolo, questo invece deciso dal voto popolare, nelle istituzioni regionali e locali. Questo è quanto, a oggi, c'è scritto nel Ddl.
Non va dimenticato che l'obiettivo della riforma è accelerare il processo legislativo, modificando le funzioni della seconda Camera. Ugualmente non va dimenticato che per varare questa complessa riforma della Costituzione servono due letture e due approvazioni da parte di entrambe le Camere sul medesimo testo non più emendato. Alla fine di questo lungo processo, seguirà il referendum confermativo con cui i cittadini potranno approvare o rigettare il Ddl. Come saprete, una parte del Partito Democratico non appoggia più, però, il Disegno di legge così com'è: questo è il frutto di una serie di dissensi che non nascono adesso, ma che sono probabilmente stati sottovalutati fin dall'inizio. Una parte dei parlamentari Pd è infatti sempre stata scettica sull'elezione tramite i Consigli regionali e chiede ora di reintrodurre la possibilità che siano i cittadini a scegliere i membri di Palazzo Madama. Renzi è sempre stato in disaccordo nel merito. E ha tirato dritto. Ora però si pone anche un problema di metodo: cambiare la norma significherebbe emendare il testo e con ciò si dovrebbe ricominciare l'iter legislativo letteralmente da zero.
Vorrei esprimere la mia posizione. Credo che si siano un po' troppo snobbate le perplessità interne al PD. Forti del “patto del Nazareno”, la maggioranza del partito ha cercato una convergenza differente, dando poco peso alle voci critiche. Questo non è stato un buon punto di partenza. Ma è pur vero che adesso occorre trovare una soluzione e credo sia possibile farlo con la necessaria flessibilità da entrambe le parti. Senza esasperare una situazione già molto delicata. Perché sulla riforma costituzionale si gioca la tenuta politica del Governo e, forse, la stabilità della Legislatura: non sarebbe bene per il Paese mandare a monte né l'una né l'altra. Meno importante, ma non certo insignificante, si gioca anche la tenuta del Partito Democratico. Cosa dobbiamo fare, a mio avviso: prima di tutto dobbiamo realizzare un cambiamento che funzioni, che sia migliorativo e regga nel tempo perché non si tratta di una legge ordinaria, ma di un nuovo impianto istituzionale. Quindi una cosa di una serietà che non è fuori luogo definire “epocale”. Ma va detto che, di questo grande cambiamento, si è parlato tanto e che i pilastri su cui fondarlo sono stati pensati e condivisi. Non si può rimuovere, per tatticismi che avrebbero come unica conseguenza quella di spaccare partito e Governo, che siamo d'accordo sugli obiettivi fondamentali. Se si hanno dei dubbi sulla composizione del nuovo Senato o si ravvisa una farraginosità nell'elezione indiretta di sindaci (l'elettorato passivo dei sindaci è sempre stato, tra l'altro, un tasto delicato e foriero di dubbi da più parti) e consiglieri regionali, ci sono soluzioni che possono ricomporre in maniera positiva le perplessità. Per esempio quella dell'elezione indiretta attraverso i “listini” dei Presidenti di Regione. Come funzionerebbe? In pratica, quando l'elettore voterà per il consiglio regionale e la presidenza della propria Regione, troverà sulla scheda i nomi dei candidati collegati al Governatore del partito che sceglie: coloro che saranno eletti nell'ente territoriale andranno a far parte anche del nuovo Senato. È un'idea che tiene assieme: il fatto che siano i cittadini a eleggere i senatori; che questi rappresentino le istituzioni territoriali per cui sono stati realmente votati. È un'idea ragionevole per dirimere la questione. In questo modo, oltre tutto, non si dovrebbe necessariamente modificare l'articolo 2 del Ddl Boschi (quindi ripartire da capo) ma si potrebbe usare l'articolo 10 (sul procedimento legislativo) secondo cui sarà una legge ordinaria a stabilire come il cittadino “concorrerà” a scegliere chi entra nel Senato delle autonomie. Lo farebbe, appunto, eleggendo i consiglieri regionali. In questo modo non si sfascia tutto l'impianto.
Ma questa è solo un'ipotesi. La illustro solo perché mi pare costruttiva. Non è affatto detto sia la soluzione che verrà intrapresa. Eppure rimarco come da oltre un anno stiamo parlando delle fondamenta della revisione costituzionale. E rimarco come i principi siano, nel loro senso ultimo, sostenuti da tutti. L'ipotesi del listino ha, a mio avviso, il vantaggio di mantener ben salda l'idea che il Senato sia una rappresentanza delle autonomie locali e delle Regioni, come avviene in molti Paesi autenticamente federalisti. Con l'effetto di contrastare con forza le spinte eccessivamente centralizzanti che in questi anni sono tornate in auge e di ridare fiato a un impianto più decentrato. Se la revisione del Titolo V toglie infatti molte competenze esclusive proprio alle Regioni, è fondamentale che queste istituzioni abbiano peso a Roma. E se si vuole poi che i cittadini contribuiscano a decidere chi va a ricoprire i posti di Palazzo Madama, non ho nulla da eccepire se questo avverrà con l'elezione regionale stessa o successivamente, attraverso il voto dei Consigli regionali. In entrambi i casi, il voto popolare regionale avrà una valenza di diverso tenore rispetto a oggi e, più o meno indirettamente, porterà i rappresentanti a Roma.
Mi pare dunque che i problemi non siano insormontabili. E mi pare che il punto sia capire dove si vuole andare, decidere che ci si vuole arrivare e costruire la strada migliore per raggiungere la meta. Mi pare che il punto sia avere le idee chiare. Perché se vengono rimessi in discussione i pilastri, non si andrà da nessuna parte. Oltre tutto, ricordo che la nuova legge elettorale approvata in via definitiva in maggio, l'Italicum, non prevede più l'elezione diretta del Senato. Le riforme istituzionali sono state pensate assieme: non possiamo fare come Penelope, che fila la tela e poi la disfa. La commissione Affari costituzionali deve esaminare 510mila emendamenti (presentati soprattutto dall'opposizione): non sono stati neppure stampati i testi, perché avrebbe richiesto troppo tempo (e troppa carta). La responsabilità, adesso, è dunque essere coerenti con la strada percorsa. E ascoltare i punti di vista. Bisogna essere, tutti, costruttivi.

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