martedì 29 marzo 2016

La Camera approva la riforma delle Banche di credito cooperativo (Bcc)

La commissione Finanze ha riformulato il testo: le Bcc più grandi che vogliano mantenere la propria autonomia potranno scorporare il ramo bancario senza intaccare le riserve indivisibili

Il 23 marzo la Camera ha approvato il Decreto per la riforma delle Banche di credito cooperativo (Bcc), che contiene inoltre alcune misure per il rafforzamento delle garanzie sulle sofferenze bancarie e altre norme in ambito fiscale. La legge nasce dal bisogno di rendere più solido il sistema del credito, consentendo nuovi e maggiori strumenti di ricapitalizzazione anche a quelle peculiarissime banche che sono le Bcc.

Un anno fa Governo e Parlamento erano intervenuti sulle Banche popolari, sancendo che quelle con un patrimonio superiore agli 8 miliardi dovessero diventare Spa, superando il cosiddetto “voto capitario” (per cui all'interno dell'assemblea ogni socio esprime un singolo voto indipendentemente dal numero delle azioni detenute), dando via a processi di crescita e fusione, facendo entrare nuove risorse. Un rafforzamento analogo, volto all'irrobustimento del sistema, si realizza ora per le Bcc che sono, appunto, una tipologia molto peculiare di banca. Il cui senso e la cui ragion d'essere vanno tutelati.
Le Bcc sono infatti banche cooperative, ovvero banche i cui utili non vengono redistribuiti ma entrano a far parte delle cosiddette “riserve indivisibili” dei soci (che sono un patrimonio  indisponibile), ma pure banche dotate di un forte legame con le comunità e le imprese dei territori in cui sono nate (e che hanno poi contribuito a strutturare economicamente) e con una decisa vocazione mutualistica. Il Credito cooperativo italiano, che afferisce dunque totalmente ai valori e ai principi della cooperazione, ha una rete di circa 370 banche con 4.400 sportelli e 1 milione 150mila soci; i maggiori istituti sono la Bcc di Roma, la Bcc d'Alba, la Bcc Ravennate e Imolese.
Molte Bcc minori, però, presentano profili di debolezza: secondo la Banca d'Italia sono oltre 50 quelle che, per continuare a esistere, devono assolutamente avviare dinamiche di aggregazione e raccogliere ulteriori risorse attingendo quindi a nuovi capitali. Pertanto il Legislatore ha ritenuto urgente intervenire, al fine di scongiurare crisi e fallimenti (oggi da sventare più che mai anche a fronte delle nuove regole europee sui salvataggi), per trasformare le attività bancarie delle Bcc in Spa, ovvero in società per azioni dunque in società aperte all'apporto di soggetti differenti dai soci. Intento non errato, a patto che non vengano snaturate le stesse basi della cooperazione: fortunatamente il lavoro in commissione Finanze, seguito con attenzione da molti deputati del gruppo Pd, è pervenuto a un risultato positivo, apportando correttivi fondamentali e modificando ampiamente il testo originario che presentava forti criticità. Vediamo quindi cosa è cambiato durante la discussione e quale sarà l'effetto del Decreto.
Dopo l'approvazione del Dl, le Bcc dovranno passare da una gestione individuale e singola, com'è ora, a una gestione di gruppo (pur continuando ad avere ciascuna una propria autonomia giuridica e operativa). Il Decreto prevede infatti che l'esercizio dell'attività bancaria in forma di banca di credito cooperativo sia consentito solo alle Bcc appartenenti a un gruppo bancario cooperativo, che abbia come capogruppo una società per azioni con un patrimonio non inferiore a 1 miliardo. Da sottolineare che la maggioranza del capitale della capogruppo dovrà essere detenuta dalle stesse Bcc del gruppo, mentre il resto potrà essere detenuto da soggetti omologhi (gruppi cooperativi bancari europei, fondazioni) o essere destinato al mercato dei capitali. Inizialmente, il testo di legge prevedeva che le Bcc con patrimonio superiore ai 200 miioni di euro e che non volessero aderire al gruppo potessero avvalersi di questa opzione di “uscita” (cosiddetta “way out”): la Bcc poteva diventare automaticamente Spa versando allo Stato un'imposta pari al 20% delle riserve indivisibili. Trasferire le riserve per diventare società per azioni significava, però, tradire lo spirito stesso delle banche cooperative che, come detto, non possono neppure dividere l'utile. Con questa configurazione, il patrimonio non sarebbe neppure stato diviso, ma addirittura “ceduto”. Su questo delicatissimo punto si è trovata però una soluzione giusta e condivisa: le Bcc con patrimonio superiore ai 200 milioni (le banche più piccole potranno avvalersi della way out, ma solo congiuntamente a una Bcc che abbia un patrimonio netto superiore a 200 milioni), qualora non volessero entrare a far parte del gruppo, potranno conferire la propria attività bancaria a una Spa di  nuova formazione, cui viene destinato il ramo d'azienda. La condizione vincolante è che al momento del conferimento la Bcc conferente versi all'erario una quota del 20% del patrimonio netto e non più, come previsto inizialmente, delle riserve, facendo quindi salvo il principio della loro indivisibilità.
In definitiva, a seguito del conferimento, la cooperativa interessata da una parte modifica il proprio oggetto sociale per escludere l'attività bancaria e dall'altra mantiene le riserve indivisibili (al netto del versamento effettuato allo Stato), mantenendo finalità mutualistiche e impegnandosi ad assicurare ai soci servizi funzionali al proseguimento del rapporto con la Spa conferitaria, di formazione e informazione sui temi del risparmio e di promozione di programmi di assistenza.
L'attività della cooperativa conferente sarà in tal senso oggetto di verifiche. Le Bcc avranno 60 giorni di tempo, dopo la conversione del Decreto, per avvalersi dell'opzione: la richiesta di “way out” dovrà essere inviata alla Banca d'Italia, che dovrà comunque valutare la sostenibilità della nuova Spa.
Il Decreto arrivato a Montecitorio era insomma di difficile “digestione” perché imponeva non solo alle Bcc maggiori che volessero restare autonome di diventare Spa ma addirittura di portare nella nuova società per azioni quel patrimonio che fonda le Bcc e di cui i soci stessi non possono disporre in forma di utile aziendale, perché serve agli investimenti e alle attività.
Quel patrimonio è frutto poi di un'accumulazione intergenerazionale e ha inoltre ricevuto negli anni un trattamento fiscale di favore, teso proprio a promuovere questa forma di capitale non restituibile: questo è il valore della cooperazione rispetto alle imprese basate sul profitto e la tutela di questo valore non può essere una subordinata rispetto all'oggettiva necessità di riordino del settore.
Se la legge avesse imposto di intaccare il patrimonio sarebbe stato un precedente molto grave, ad avviso di molti persino passibile di incostituzionalità e comunque estraneo al senso della cooperazione e all'idea di società che l'attività cooperativa rappresenta.  
La soluzione trovata in Commissione, invece, salvaguarda da un lato le riserve delle Bcc con il loro portato intergenerazionale, dall'altro consente la trasformazione degli istituti bancari cooperativi, favorendone l'aggregazione in gruppi o il mantenimento dell'autonomia attraverso la separazione tra attività bancaria e quella cooperativa. La riscrittura del provvedimento, merito dei componenti PD della Commissione e del Governo, è stata dunque fondamentale.
La legge votata tutela con ciò lo spirito della cooperazione senza negare la necessità per le Bcc di aprirsi al mercato: si è riusciti a coniugare il bisogno di ricapitalizzazione e l'esigenza di mantenere istituti legati al territorio e alla vocazione mutualistica.
Al di là dell'opzione “way out”, la riforma indica infatti in via generale l'obbligo per le singole Bcc di aderire a un gruppo bancario cooperativo, ovvero una Spa i cui azionisti sono proprio le Bcc. L'adesione sarà la condizione per il rilascio dell'autorizzazione dell'attività bancaria in forma di Banca di credito cooperativo.
Tenendo conto delle specificità territoriali del Paese e dell'arricchimento che esse potranno fornire al gruppo cooperativo è stata anche introdotta la possibilità di costituire sottogruppi territoriali facenti capo a una banca costituita in forma di Spa, sottoposta a direzione e coordinamento della capogruppo. La riforma approvata induce quindi le Bcc a forme di aggregazione (con potere di controllo da parte delle Bcc aderenti) o al mantenimento della propria singolarità attraverso lo scorporo illustrato (“way out”). La Bcc che non vuole aggregarsi né cedere il proprio ramo realizzando una Spa singola si deve sciogliere e le sue riserve devono entrare nelle casse dello Stato.
Questa è, in sintesi, la riforma approvata: una misura equilibrata che rispetta la cooperazione pur nella necessità del consolidamento finanziario e contabile, che è la finalità del Decreto.

Il provvedimento reca poi altre norme per la solidità del sistema bancario nel suo complesso, occupandosi della garanzia pubblica per le cartolarizzazioni (ovvero la cessione dei debiti e il loro ricollocamento tramite titoli obbligazionari) e innalzando da 100 a 120 milioni il fondo di garanzia, istituito presso il ministero dell'Economia, per i crediti in sofferenza. La garanzia dello Stato non viene attribuita ai titoli più rischiosi, ma solo alle obbligazioni cosiddette “senior”, ovvero quelle che per ultime sopportano le perdite eventuali derivanti da fallimenti bancari (quindi le obbligazioni più sicure). In ambito di misure fiscali, il Decreto introduce un'imposta di registro fissa a 200 euro, al posto dell'aliquota al 9%, per gli immobili comprati tramite asta giudiziaria.
Riviste anche le regole che producono il cosiddetto “anatocismo bancario”, ovvero la maturazione degli interessi sugli interessi per i debiti sui conti correnti e sui finanziamenti tramite carte di credito. Un emendamento approvato dalla commissione Finanze stabilisce che gli interessi debitori a carico del cliente siano conteggiati una volta all'anno e non possano poi “produrre interessi ulteriori”. Oggi gli interessi vengono conteggiati ogni tre mesi e se non sono “saldati” fanno maturare altri interessi: il meccanismo, ora riformulato, fa sì che il “surplus” si valuti solo al 31 dicembre e sia esigibile da marzo dell'anno successivo (gli interessi attivi sono invece esigibili dal primo gennaio). La misura dovrebbe far risparmiare quasi 2 miliardi a cittadini e imprese.

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