di Alberto Pagani (Deputato PD)
Il quesito, ribattezzato strumentalmente “no triv”, riguarda 21 delle 66 concessioni esistenti: non prorogarle ci renderebbe più dipendenti dalle forniture estere e farebbe perdere lavoro alle persone
Il 17 aprile si terrà il referendum sul rinnovo delle concessioni per la ricerca di idrocarburi in mare: ne ho già scritto all'inizio di febbraio, quando la Consulta ha ammesso il quesito, e ne scrivo ora per ribadire quanto precedentemente affermato. Ovvero che lo trovo assurdo sia perché si tratta di un tema altamente specialistico trasformato in una campagna ideologica, sia perché il suo esito potrebbe essere dannoso per il comparto, per il Paese, per migliaia di lavoratori. Non credo sia un referendum da promuovere, tanto che non ne scriverò più e tanto che spero finisca con un nulla di fatto, lasciando tutto così com'è ora.
Approfitto solo di questa newsletter – visto, oltre tutto, che nelle scorse settimane si è avviato anche un dibattito interno al Pd sulla materia – per rimettere i puntini sulle “i”. Questa consultazione, ribattezzata in maniera molto fuorviante “no triv” (“no trivelle”), chiama i cittadini a decidere se impedire o meno la proroga dei permessi già esistenti per estrarre gas naturale e petrolio in riferimento ai giacimenti entro le 12 miglia dalla costa. Il quesito nella sostanza chiede: volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque entro le 12 miglia anche se c'è ancora gas o petrolio? Se vince il sì, gli impianti si fermano. Se vince il no, gli impianti già attivi continuano il proprio lavoro, come prevede oggi la legge. Il referendum non riguarda, inoltre, nuove eventuali trivellazioni entro le 12 miglia perché il Legislatore le ha già vietate negli scorsi mesi; quelle oltre tale distanza continueranno infine a essere permesse anche in caso di vittoria del sì (per questo autoproclamarsi “no triv” mi sembra una presa in giro nei confronti dei cittadini). Bisogna sapere che, sulle 66 concessioni estrattive marine presenti oggi in Italia, 21 si trovano entro le 12 miglia: il voto dovrebbe decidere su queste. Due sono in Emilia-Romagna, una in Veneto, una nelle Marche, tre in Puglia, cinque in Calabria, due in Basilicata e sette in Sicilia. Se vincesse il sì, questi 21 impianti dovrebbero chiudere nel giro di 5-10 anni. Bisogna poi sapere che quattro quinti di tutto il gas prodotto in Italia viene estratto dal mare, così come un quarto del petrolio. Poiché un terzo degli impianti dovrebbe chiudere, in caso di vittoria del sì una delle conseguenze sarebbe una maggior dipendenza dell'Italia dall'estero. Dovremmo insomma comprare più gas e petrolio da fuori.
Cerchiamo di capire: perché dovremmo augurarci tale scenario? Gli stessi comitati ammettono che è altamente improbabile che in Italia si verifichino disastri ambientali a causa delle piattaforme, per una serie di ragioni tecniche e idrogeologiche (confermate anche da Greenpeace e dal Wwf). Gli stessi promotori del referendum affermano poi che l'inquinamento determinato dagli impianti non è il tema centrale, visto che l'impatto ambientale delle perforazioni è molto basso. Estraendo gas e petrolio evitiamo inoltre il transito per i porti italiani di centinaia di petroliere dall'estero, che è una cosa molto più pericolosa. I comitati motivano, sostanzialmente, la loro “battaglia” in due modi. La prima ragione che si adduce è che gli impianti danno una cattiva immagine dei territori in relazione al turismo. Bizzarro, visto che l'Emilia-Romagna, ovvero la regione con più alto numero di piattaforme (la maggioranza delle quali oltre le 12 miglia), è anche una di quelle con il settore turistico-balneare più sviluppato. La seconda ragione, vero motivo del quesito per i promotori, è dire basta ai combustibili fossili: i comitati per il sì hanno dichiarato a più riprese che quello del 17 aprile è un “atto politico” per dire no a gas e petrolio. Come se il 18 aprile ci potessimo poi svegliare in un mondo in cui non servono più. La vittoria del sì, motivata da così esili e stralunati argomenti, avrebbe però vere e concrete conseguenze sull'occupazione: migliaia di persone lavorano in questo settore e la fine delle concessioni significherebbe creare problemi ai loro posti di lavoro. Nella nostra provincia, l'offshore impiega direttamente o indirettamente quasi settemila addetti: se mai vincesse il sì, e non accadrà, vorrei proprio vedere i promotori spiegare loro che gli impieghi sono a rischio a causa di una crociata contro il gas naturale (o perché, mentre si sta in spiaggia, è sgradevole vedere un paio di impianti a largo della costa).
Se si vuole, come è anche giusto e legittimo, chiedere al Governo più investimenti sulle energie rinnovabili, non lo si deve fare sulla pelle di migliaia di lavoratori o incrinando un comparto che impatta poco sul piano ambientale e dà molto sul fronte delle forniture energetiche. Se si vuole una politica più decisa sulle fonti alternative, non la si imposta ideologicamente indebolendo il Paese e facendo perdere il lavoro alla gente. Credo davvero che siamo di fronte a un referendum scriteriato: la legge ha già regolato il divieto di nuovi impianti. L'unico effetto sarebbe quello di far chiudere parte di quelli esistenti rendendoci più dipendenti dai rifornimenti stranieri e compromettendo l'occupazione. Non aggiungo altro. Se non che sarebbe meglio usare diversamente le proprie energie per fare davvero politica. Che significa migliorare le condizioni di partenza, reali e non ipotetiche, in cui viviamo, quindi lavorare in maniera decisa e assennata. Non è il caso di questo referendum.
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