mercoledì 4 maggio 2016

Referendum, Giorgio Napolitano: «Se vince il no per le riforme è finita»

Secondo il presidente emerito «è sbagliato personalizzare, ma è in gioco il governo»

di Aldo Cazzullo (Il Corriere della Sera, 2 maggio 2016)

Presidente Napolitano, in Europa si alzano muri e si tengono referendum per uscire dall’Unione. Si sta sfasciando tutto?
«Viviamo una grave crisi dell’unità europea e del processo di integrazione. Ma abbiamo appena vissuto un intervento storico del presidente degli Stati Uniti, che non è stato sottolineato abbastanza. Obama si è rivolto ai popoli europei e alle leadership. Ha fatto capire che gli Usa non vogliono più trattare con i singoli Stati europei, ma con l’Europa nel suo insieme. Ha detto che la relazione speciale tra Washington e Londra non avrebbe più senso se Londra non restasse nell’Ue. E ha usato un’espressione che mi ha colpito per la sua durezza: “È nella nostra natura umana l’istinto, quando il futuro appaia incerto, di ritrarsi nel senso di sicurezza e di conforto della propria tribù, della propria setta, della propria nazionalità». Insomma, Obama ha messo gli impulsi neonazionalistici sullo stesso piano degli istinti tribali».

Eppure proprio gli istinti tribali sembrano prevalere, soprattutto nell’Est europeo.
«Il problema è come i Paesi dell’Europa centro-orientale sono entrati nell’Unione. Quando si decise l’allargamento non si ebbe un chiarimento pieno su principi e valori fondamentali dell’integrazione: la cessione di sovranità, l’esercizio di una sovranità condivisa, l’interesse comune europeo. Anche da questi nodi non sciolti dipende il comportamento di Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca, e purtroppo ora anche Polonia».

Il vero nodo è la Germania. Che ha ottenuto con la pace l’obiettivo fallito scatenando due guerre mondiali: l’egemonia in Europa.
«Non usi queste categorie. La Germania di Hitler non voleva l’egemonia, ma il dominio, da imporre con il ferro e il fuoco. Con la pace i tedeschi hanno scelto la strada della Germania europea e non dell’Europa tedesca, secondo la formula del grande Thomas Mann. Si può discutere se nell’esercizio di questo ruolo il Paese più popoloso e potente d’Europa abbia teso in anni recenti a far pesare politiche non sempre accettabili per gli altri partner».

Lei stesso nel 2014 denunciò a Strasburgo i rischi dell’eccesso di austerity.
«Precisamente. Ma lo stock di debito pubblico accumulato nei decenni non è mica un’invenzione tedesca. Si può discutere se il pareggio di bilancio possa essere da noi rinviato di uno o due anni; ma è evidente che l’Italia debba continuare il risanamento avviato con Monti, come dice anche Padoan. Non possiamo convivere per l’eternità con un rapporto tra debito e Pil superiore al 100 per cento. Certo, più otteniamo crescita, più quel rapporto si riduce».

Sentite anche le parole di Obama, è giunta l’ora di un intervento in Libia, anche per impedire che diventi una base dell’Isis?
«Per troppo tempo l’Europa ha poggiato sulle spalle degli Stati Uniti per difesa e sicurezza. Questo non è più possibile, nemmeno finanziariamente, per Washington. Sono maturi i tempi per una difesa comune europea: se ne discute dal 1952».

Sì, ma la Libia?
«Mi pare che dopo qualche confusione iniziale sia stata tracciata una linea abbastanza netta: l’Italia è pronta ad assumersi un ruolo per stabilizzare la Libia, costruire istituzioni e forze armate degne di questo nome. Occorrono un invito da parte del governo libico — purché non sia il governo di una parte ma della Libia intera —, e un passo da parte dell’Onu, che pare orientato a conferire il mandato all’Italia. E nella lotta all’Isis dobbiamo fare la nostra parte ovunque secondo una divisione di compiti all’interno della grande coalizione mondiale contro il terrorismo».

Quando era ministro dell’Interno lei prese una posizione dura: disse che i profughi non dovevano affidarsi agli scafisti.
«Mi feci promotore della prima legge organica sull’immigrazione, basata su alcuni assi: lotta all’immigrazione clandestina e al traffico di esseri umani; un sistema di quote che tenesse conto delle nostre esigenze produttive. Mi pare che oggi l’Italia si stia muovendo per riprodurre in Europa uno schema analogo: condizioni di ingresso legale; impegno fermissimo verso ingressi clandestini manovrati dalla criminalità; grande lavoro per l’integrazione».

Sulla riforma costituzionale emerge un fronte vasto del No. Che impressione le fa?
«Vedo tre diverse attitudini. Quella conservatrice: la Costituzione è intoccabile, non c’è urgenza né bisogno di rivederla. Quella politica e strumentale: si colpisce la riforma per colpire Renzi. E quella dottrinaria “perfezionista”. Dubito molto che tutti i 56 costituzionalisti e giuristi che hanno firmato il manifesto contro siano d’accordo su come si sarebbe dovuta fare la riforma. Ma questa è una posizione insostenibile: perché il No comporterebbe la paralisi definitiva, la sepoltura dell’idea di revisione della Costituzione».

Intende dire che si sta saldando nel Paese un fronte conservatore?
«Non bisogna fare di ogni erba un fascio tra coloro che esprimono riserve, fanno valutazioni contrarie, fanno campagna per il No. Occorre rispetto per le riserve; per quanto se ne siano espresse in Parlamento con grande abbondanza. Non dimentichiamo quanto tempo è stata discussa dalle Camere la legge di riforma, quante consultazioni sono state fatte con l’esterno, quanti emendamenti sono stati avanzati, sia pure spesso per ostruzionismo. Occorre rispetto per chi obietta che ci sono elementi non ben risolti: del testo approvato si continuerà a discutere. Una volta confermata la legge, bisognerà mettersi al lavoro per costruire davvero questo nuovo Senato, e trarre dall’esperienza ogni possibile conseguenza».

Non sarebbe stato meglio mantenere l’elezione diretta?

«In Europa non esiste quasi più nessun esempio di Senato eletto direttamente dai cittadini: un elemento di base per farne il doppione della Camera. In Germania il Bundesrat è fondato sulla rappresentanza dei Laender, in Austria pure. In Francia esisteva un Senato come in Italia; ora non è più eletto direttamente, ma dai rappresentanti delle Regioni e dei Comuni».

La nostra Costituzione è davvero superata, secondo lei?
«La prima parte esprime in piena luce principi e valori fondamentali di convivenza civile e politica. La seconda parte, sull’ordinamento della Repubblica, ha presentato da subito gravissime fragilità. Nell’equilibrio dei poteri l’esecutivo è stato fin dall’inizio debole. I costituenti avevano previsto la necessità di dispositivi per evitare l’instabilità dei governi e le degenerazioni del parlamentarismo; ma questi dispositivi non sono mai arrivati. Presto apparve chiaro che il bicameralismo paritario era indifendibile. Siamo in ritardo gravissimo. I tentativi sono stati molti: la bicamerale presieduta da Bozzi, la commissione De Mita-Iotti, la commissione D’Alema, che vide collaborare tutte le forze politiche e fu silurata alla fine. Se si affossa anche questo sforzo di revisione costituzionale, allora è finita: l’Italia apparirà come una democrazia incapace di riformare il proprio ordinamento e mettersi al passo con i tempi. E questo lo devono capire tutti; anche quelli che vorrebbero usare il referendum per far cadere Renzi».

Ma Renzi non ha sbagliato a legare le sorti del governo alla vittoria del Sì?
«Renzi non avrebbe dovuto dare questa accentuazione politica personale; ma solo un ipocrita può dire che, se ci fosse un rigetto su una questione così importante, su cui il governo si è tanto impegnato in Parlamento, non si porrebbe un problema per le sue sorti. Renzi ha sbagliato a metterci un tale carico politico: se vince il Sì vince la riforma, vince l’interesse generale del Paese; non è un trofeo che Renzi possa impugnare, non è un’incoronazione personale. Di recente Renzi nel discorso alla Camera prima del voto definitivo sulla legge ha corretto il tiro, ha evitato quella accentuazione, è entrato nel merito».

Esiste in Italia una nostalgia di Mani Pulite, del ’92?
«La condizione del ’92 è irripetibile, se non altro perché allora c’era il vincolo dell’autorizzazione a procedere; e ogni giovedì pomeriggio si doveva affrontare una grossa massa di procedimenti. Da presidente della Camera ricordo che riuscimmo a fare un lavoro serio, rispettoso degli elementi che la magistratura portava al vaglio del Parlamento; anche se per me ci fu una cosa terribile».

Quale?
«Quando si suicidò il deputato socialista Moroni, il giorno dopo lessi la sua lettera in Aula. Moroni era stato perseguito per aver violato la legge sul finanziamento pubblico dei partiti; non per appropriazione personale di denaro. Aveva ottenuto vantaggi impropri per il partito; non aveva rubato per sé. Oggi si rivelano fenomeni di corruzione estesa molto gravi, spesso a fini strettamente di arricchimento personale. E si vorrebbe una capacità di azione del sistema giudiziario incisiva come allora. Ma quel sistema fu per molti aspetti criticabile. Nulla si può ripetere ciecamente».

Cosa risponde a chi le accusa di interventismo?

«Chi lo fa ignora l’articolo della Costituzione che sancisce che il presidente della Repubblica uscente diviene senatore a vita, mettendo la sua esperienza e il suo equilibrio al servizio dell’interesse nazionale. Lasciamo stare le stupidaggini di chi immagina che io abbia poteri che non ho più. Sono in grande sintonia con l’operato del presidente Mattarella, sono suo amico da anni, ho con lui rapporti limpidissimi. Il resto sono sciocchezze che trovo sia su giornali impegnati in una campagna contro di me fin da quando ero al Quirinale, sia in bocca a esponenti del centrodestra che vennero a chiedermi la disponibilità a essere rieletto, forzando la mia volontà».

Se potesse tornare indietro, accetterebbe di nuovo la rielezione?

«Come si fa a rivivere oggi la situazione del 2013? In Parlamento c’era la maggioranza in una Camera e non nell’altra. Tutti i partiti si impegnarono a fare una nuova legge elettorale e la riforma costituzionale. Ritenni di non potermi tirare indietro. E il mio ulteriore sforzo fu riconosciuto con tale ampiezza in Italia e fuori Italia, che posso abbandonare al loro destino quelli che applaudirono il mio polemico discorso alle Camere del 2013 e oggi conducono la loro campagna faziosa».

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