di Alessandro Pace, professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università «La Sapienza» di Roma.
(La Repubblica, 17 agosto 2011)
Era proprio necessario che tra le misure anti-crisi venisse previsto di spostare alla domenica successiva la celebrazione della sconfitta del fascismo, della nascita della Repubblica e di quel lavoro che la Costituzione pone a fondamento dell'Italia?
Mi chiedo ancora: Barack Obama o qualsiasi altro leader americano penserebbe mai, come misura anti-crisi, di poter spostare alla domenica successiva la celebrazione del "giorno dell'Indipendenza" (4 luglio) o "del giorno del Ringraziamento" (ultimo giovedì del mese di novembre)?
Non mi chiedo, invece, cosa succederebbe in Francia dinanzi alla solo ventilata idea di spostare la celebrazione della presa della Bastiglia al 16 o al 17 luglio. È infatti scontato che ciò determinerebbe una intransigente opposizione da destra come da sinistra, perché il 14 luglio è il "14 luglio": una data e, insieme, un simbolo che sta alla Francia come il 25 aprile sta all'Italia.
Identifica la precondizione storica della nascita, tra sangue e sofferenze, della Repubblica francese, così come senza il 25 aprile 1945, simbolo del riscatto italiano, non ci sarebbe mai stato il 2 giugno 1946.
Ebbene, gli americani e i francesi - per limitarmi ai soli esempi fatti - non acconsentirebbero mai allo spostamento di queste ricorrenze alla domenica successiva, perché hanno la consapevolezza di un fatto - ben noto, a livello teorico, a costituzionalisti e politologi -, e cioè che la celebrazione degli avvenimenti che hanno segnato la nascita e la storia del loro Paese (come anche la bandiera, l'inno nazionale ecc.) costituisce un permanente "fattore d'integrazione" dell'ordinamento statale, la cui sostanziale unità, pur nella diversità delle idee, è nell'interesse generale preservare. Ciò è tanto vero che il dare alle fiamme la bandiera nazionale fu riconosciuto legittima manifestazione del pensiero dalla Corte Suprema, in quanto metteva in discussione una data politica (la guerra in Vietnam), e non i valori della Costituzione federale.
È quindi ovvio che, per i cittadini italiani che hanno cara l'unità del nostro Paese, sia motivo di sofferenza (oltre che di dolore, nel ricordo di quanti hanno sacrificato la vita per quell'Unità) assistere al dileggio di quei simboli, impunemente manifestato (addirittura!) da rappresentanti del popolo con parole e gesti osceni. Ed è quindi altrettanto ovvio che anche la sola "mancanza di considerazione" di quelle date simboliche da parte dei nostri governanti, possa costituire, per i cittadini italiani orgogliosi di essere tali, motivo di indignata preoccupazione, soprattutto se si pone mente al fatto che quanti dileggiano quei simboli, prima di assumere gli incarichi di governo, hanno prestato giuramento sulla Costituzione (che quei valori presuppone e incorpora) dinanzi al Presidente della Repubblica, in quanto "rappresentante dell'unità nazionale" (art. 87 comma 1 Cost.).
Potrebbe bensì obiettarsi che, nell'era della globalizzazione, lo Stato-nazione è un po' dappertutto in crisi, e con esso tutti quei simboli. Ma è in crisi - deve osservarsi - perché soggetto a ripensamento è il concetto di nazione a fronte delle pressioni multietniche, non è in crisi il concetto di Stato, il quale resta essenziale anche in un'ottica sopranazionale ed europea.
Fermo restando quanto fin qui osservato, è quindi solo per completezza che, in critica alla misura anti-crisi sopra ricordata, può aggiungersi che, anche dal punto di vista strettamente economico, il gioco non vale la candela, perché, come è stato subito osservato dalla Federalberghi, all'aumento della produttività conseguente allo spostamento delle feste, corrisponderà una analoga contrazione dei consumi.
Data la sostanziale inutilità, anche pratica, della misura, sorge allora il dubbio se, per individuarne la ragione giustificativa, non si debba fare il processo alle intenzioni dei nostri governanti. In questa ottica andrebbe perciò ricordato che taluni di loro hanno criticato la celebrazione della Resistenza, hanno prospettato la soppressione della festa del lavoro, hanno dileggiato la bandiera e l'inno della Repubblica e si sono opposti alla celebrazione del Centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia.
Per cui, alla luce di questi dati, ci si potrebbe chiedere se l'inserimento, tra le misure anti-crisi, della possibilità di spostare alla domenica successiva le tre feste civili non abbia costituito l'occasione - colta al volo da quei governanti che così si erano espressi - per sminuire l'importanza simbolica di fatti storici che ai loro occhi non rappresentano dei "valori", in contrasto con la stragrande maggioranza dei cittadini italiani.
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