L'articolo di Luigi Mariucci, responsabile Lavoro del Partito Democratico dell'Emilia-Romagna pubblicato su L'Unità di giovedì 5 aprile
Sulla modifica dell'articolo 18 è stato evitato il peggio, visto che la vicenda era iniziata in nome della bizzarra idea di ostentare ai mercati finanziari e agli investitori esteri lo «scalpo» della liberalizzazione dei licenziamenti. Il governo ha finalmente accolto i buoni consigli che gli sono stati dati, anche da queste pagine.
Sui licenziamenti economici è scomparsa la formula aberrante inizialmente proposta: quella che vincolava il giudice a disporre solo la monetizzazione ove il motivo economico risultasse «inesistente». Si può dire che sul punto ha vinto la ragione.
Ora infatti la disposizione è radicalmente cambiata. Oltre a prevedere un filtro sindacale, con il ricorso preventivo all'ufficio del lavoro, si reintroduce la possibilità della reintegrazione, e non solo dell'indennizzo, da parte del giudice ove risulti che il motivo economico è «manifestamente infondato», espressione da ritenersi inclusiva dell'ipotesi per cui tra il motivo economico e la scelta di quel lavoratore o lavoratrice non sussiste un nesso causale. In questo modo resta salvo il principio della reintegrazione e si mantiene la sua essenziale funzione deterrente sul piano della garanzia complessiva dei diritti in corso di svolgimento dei rapporti di lavoro, come il Pd e il suo segretario non si sono stancati di ripetere nelle scorse settimane. Logica avrebbe voluto che attribuendo al giudice la scelta tra indennizzo o reintegrazione si fosse anche abbassata la soglia dei 15 dipendenti, ormai priva di ogni vero carattere selettivo.
Questo comunque è già più accettabile, per quanto nulla tolga ai due errori commessi dal governo nel corso di questa vicenda. Il primo consiste nell'aver diffuso il messaggio per cui la portata innovativa della riforma andava misurata sul grado di liberalizzazione dei licenziamenti e su uno scambio tra minore flessibilità in entrata e maggiore «flessibilità in uscita» (formula del gergo economicista che in italiano si traduce in «licenziamenti più facili»). Quando il problema principale del Paese, di fronte alla dura recessione in corso, consiste nel fatto che il lavoro scarseggia, per chi ce l'ha e rischia di perderlo e per chi lo cerca, soprattutto giovani e donne, e non lo trova, o lo trova solo precario, di cattiva qualità. L'accento andava quindi posto, al contrario, fin dall'inizio, sulle misure necessarie a riavviare la crescita, lo sviluppo compatibile.
L'altro errore consiste nel non avere perseguito l'accordo con le parti sociali, anzi nell'averlo in sostanza evitato. Si dice che la concertazione è finita e che ora si pratica solo la consultazione. Non so se sia un bene. Certo è che è preferibile, specie nei momenti di maggiore difficoltà e sofferenza sociale, il consenso delle forze sociali, come accadde nel 1992-93 quando il segretario della Cgil era Bruno Trentin e il presidente del Consiglio Ciampi, piuttosto che alimentare conflitti e dissensi che, all'esito, riguardano tutti i sindacati e non solo la Cgil. Può essere che questa contrastata vicenda produca, paradossalmente, un effetto positivo: la riscoperta del valore strategico dell'unità tra i sindacati confederali.
Nei prossimi giorni si potrà dare una valutazione più analitica. Al momento si può dire così: si è vinta una prima battaglia, si apre ora lo spazio per migliorare altre parti del provvedimento. Meglio questo, piuttosto che piangere poi sul latte versato.
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