sabato 14 giugno 2014

Il cordoglio dei Democratici casolani per la scomparsa di Aurelio Ricciardelli

Il Segretario, il Comitato direttivo, gli iscritti e gli elettori Democratici di Casola Valsenio si uniscono al lutto della famiglia Ricciardelli e dell'ANPI, per la scomparsa di Aurelio Ricciardelli.
Nato nel dicembre 1924, Aurelio è stato partigiano combattente nella 36ma Brigata Garibaldi "Alessandro Bianconcini" per diventare, nel dopoguerra, militante e dirigente del Partito Comunista.
Si deve al suo impegno e alla sua visione, il rilancio della presenza e dell'iniziativa dell'ANPI a Casola Valsenio, che anno dopo anno ha saputo costruire e consolidare un positivo e fecondo rapporto con le scuole e con le giovani generazioni: il suo assillo, la sua preoccupazione era quella di promuovere non solo la memoria della Resistenza e della Guerra di Liberazione contro l'occupazione nazifascista nel 1944/45, ma - in particolare - i principi democratici e di libertà, di pace e giustizia che hanno animato l'antifascismo e che sono a fondamento della Costituzione della Repubblica Italiana.
Per ricordare Aurelio Ricciardelli, pubblichiamo la sua testimonianza in occasione del 60° anniversario della Resistenza, nel 2004...


(8 agosto 2004)
Testimonianza di Aurelio Ricciarelli
partigiano della 36.ma Brigata Garibaldi “A. Bianconcini” operante nell’Appennino Tosco-Romagnolo tra il maggio e l’ottobre 1944. Attualmente è Segretario della Sezione ANPI (Associazione nazionale partigiani d’Italia) di Casola Valsenio.

“La storia della lotta armata, della lotta di liberazione nazionale – che è un aspetto della resistenza al fascismo, e che inizia invece molti anni prima con le diverse forme di opposizione al regime organizzate dai partiti antifascisti durante il “ventennio” – inizia il 25 luglio 1943, con la caduta del fascismo.
La crisi del regime fascista è al culmine: l’andamento disastroso della guerra, il malcontento popolare, gli scioperi del marzo ’43 nelle grandi città industriali del nord, portano il Gran Consiglio del Fascismo a sfiduciare Mussolini, che verrà subito dopo arrestato per ordine del Re, Vittorio Emanuele III, lo stesso che nel 1922 gli aveva aperto le porte del potere.
Nuovo capo del governo viene nominato il Maresciallo Pietro Badoglio, che alla radio annuncia “La guerra continua, al fianco degli alleati tedeschi”…
Malgrado queste parole, tutti pensiamo che sia la fine della guerra o che la fine sia vicina. Le campane suonano a festa, la gente si abbraccia nelle strade, vengo-no abbattuti i simboli del regime.
E’ invece l’inizio di una stagione tragica, di rovine e di lutti, di una guerra spaventosa, che nelle nostre terre ancora non era arrivata.
L’8 settembre 1943, dopo poco più di un mese dal 25 luglio, l’Italia firma l’armistizio con gli Alleati; il Re e lo Stato maggiore dell’esercito fuggono da Roma lasciando l’esercito allo sbando, senza guida, in balia dei tedeschi. Ma non mancano gli episodi di resistenza dell’esercito italiano contro i tedeschi, come a Porta San Paolo a Roma, o come nell’isola greca di Cefalonia dove un’intera divisione di 5.000 uomini viene massacrata dai nazisti.
Particolarmente drammatica è la situazione dei più giovani. Giovani che sono già sotto le armi e giovani che non lo sono ancora, ma che proprio in quei giorni stanno per essere arruolati.
Sono i giovani nati negli ultimi mesi del 1924 e nei primi mesi del 1925 che sono chiamati alle armi – come è capitato a me – due settimane prima dell’8 settembre 1943.
All’annuncio dell’armistizio lascio la caserma, a Ravenna, per tornare a Casola.
E’ il caos.
In quei giorni a Casola, dai confini con la Toscana fino oltre il paese, è di stanza la 3. Divisione Celere dell’Esercito italiano che è rientrata dalla Russia e dopo un periodo di riposo è stata riarmata e riequipaggiata per tornare al fronte.
Due soldati tedeschi, che arrivano in motocicletta, affiggono un proclama che in-tima la resa, e l’intera Divisione si scioglie, abbandonando armi, cannoni, cavalli, equipaggiamento e automezzi.
Qualche notte dopo – siamo un gruppo di giovani – piantoniamo la caserma dei Carabinieri e entriamo in Municipio dove è stata  accatastata parte del materiale bellico abbandonato dalla 3. Divisione Celere.
L’intenzione è quella di impossessarsi delle armi, anche se non sappiamo bene per farne che cosa.
C’è chi porta via le armi, ma la maggior parte prende coperte, cuoio…
Le armi – quelle che preleviamo quella notte e quelle raccolte nei giorni preceden-ti, ché ce n’erano dappertutto – le nascondiamo in punti diversi.
Succede poi che tra di noi, dopo, non tutti si sia scelta la stessa strada. Chi nell’esercito, chi nella “repubblichina”, chi in brigata, noi giovani del 1924 e del 1925 prendiamo strade diverse.
A mano a mano che si sa che qualcuno di noi entra nella “repubblichina”, ci affrettiamo a cambiare di posto le armi, ma non sempre arriviamo prima noi. In alcuni casi, purtroppo, di quelle armi nascoste, se ne sono impossessati i fascisti.
Ma come nasce la Repubblica Sociale Italiana?
Nel periodo dopo il 25 luglio 1943 si doveva porre fine sia al fascismo e alla sua politica, che aveva portato l’Italia in guerra nel giugno 1940 – con l’aggressione alla Francia e alla Grecia. Ma viene solo detto e non fatto, lasciando tempo al fascismo e ai suoi alleati tedeschi di riorganizzarsi.
I tedeschi occupano l’Italia, si costituisce il Partito fascista repubblicano, Musso-lini – prigioniero sul Gran Sasso - viene liberato da paracadutisti tedeschi e messo da Hitler a capo della Repubblica Sociale Italiana che si costituisce nel centro-nord con capitale a Salò, sul lago di Garda.
Anche a Casola, dopo il 25 luglio, i capi fascisti, gli squadristi, tornano in paese per riorganizzarsi, reclutando vecchi squadristi, giovani esaltati e giovani che hanno paura.
La “repubblichina” vuole ricostituire un esercito, che combatta a fianco dei tedeschi. Esce un bando di arruolamento e nel mese di novembre noi giovani siamo presi e, sotto scorta armata, caricati su un camion e portati a Ravenna, dove c’è il distretto militare.
Alcuni sono già entrati nel distretto, quando alcuni di noi chiedono di poter comprare della frutta in un vicino negozio. La fruttivendola, quando sa perché siamo lì, ci aiuta a scappare da una uscita posteriore del negozio.
Tornati a Casola decidiamo di prendere la via dei monti, più per nasconderci che per altro. Tutti noi,  insieme a Domenico Neri – uno studente universitario che, come pochi, ha capito che l’unica strada per farla finita con il fascismo è cominciare a combattere – andiamo a Monte Battaglia.
Siamo decisi a non tornare, ma siamo male armati. Con tutte le armi che ci sono abbiamo con noi solo un fucile e una pistola. Non c’è nessun collegamento esterno e, a parte i parenti, nessuno che ci aiuti.
Le nostre madri cominciano a temere per noi: “Vi fate ammazzare”. E decidiamo di ripresentarci.
Il 12 dicembre, alle 6 del mattino saliamo sulla corriera e in treno raggiungiamo Ravenna.
“Male che vada ci arrestano”, pensavamo. Invece ci danno 36 lire e 10 giorni di licenza: non ci volevano.
Al distretto c’è chi o non sa dove metterci o, più probabilmente, vuole farci capi-re che  dobbiamo scappare.
Ma non scappiamo: rientriamo a Ravenna, dopo avere prolungato di qualche giorno la licenza. Ma l’accoglienza non è la stessa dell’altra volta. Da Ravenna veniamo portati a Faenza, nella caserma fascista della Guardia Nazionale Repubblicana e di qui a Firenze, per essere preparati e spediti al fronte.
A Firenze le condizioni di vita sono pessime, il vitto immangiabile. Mi rubano anche quel poco da mangiare che avevo portato da casa.
Decido di scappare, di andarmene e lo dico con tutti. In quella caserma eravamo 300 e in meno di un’ora saltiamo il muro e scappiamo.
I carabinieri di guardia ci osservano, non reagiscono e non sparano.
Nella strada del ritorno, una famiglia che ci ospita ci dice che nel Falterona sono attive formazioni di “ribelli”. E’ la prima volta che sento parlare di formazioni partigiane.
Torniamo a Casola. Io rimango per alcuni mesi, da una casa all’altra, uscendo so-lo di notte.
Ormai, la scelta fatta è irreversibile.
Ripresentarsi significa la fucilazione, perché per la Repubblica Sociale siamo dei disertori.
Attraverso mio zio, un vecchio socialista, mi metto in contatto con un casolano esponente del Partito d’Azione, uno studente che fa parte del Comitato di Liberazione Nazionale di Bologna, che mi indica come entrare nella Brigata partigiana “Stella Rossa” – una delle prime brigate che si sono costituite - che opera nell’Appennino bolognese.
Ma non se ne fa nulla perché è in atto in quelle zone un rastrellamento.
Riprendo allora contatto con il mio amico Mino Neri, quello che era con noi a Monte Battaglia, che era già entrato in un’altra formazione partigiana, la 36.ma Brigata Garibaldi, che si costituisce ufficialmente nel maggio 1944 su iniziativa di alcuni partigiani romagnoli e bolognesi che erano sul Monte Falterona.
Io li raggiungo sul Monte Carzolano, nel punto più alto della valle, dove nasce il Senio.
In Brigata arrivano poi altri casolani. Con loro, e con altri 1200 partigiani – che è il numero massimo di componenti che raggiungerà la 36.ma Brigata Garibaldi nel settembre 1944 -  comincia una esperienza unica e straordinaria, che si concluderà con la Liberazione dell’Italia.
Due ultime considerazioni, necessarie per capire il processo di cambiamento e trasformazione provocato dall’esperienza partigiana e dalla lotta di liberazione. Quell’esperienza, infatti, non ha avuto solo un valore militare, ma un non meno importante valore democratico e sociale.
La prima considerazione, sul valore sociale della Resistenza.
La 36.ma Brigata Garibaldi, come tutte le altre, ha potuto esistere e operare grazie agli aiuti degli alleati, che hanno fatto due lanci di armi e vestiti, ma le armi con le quali abbiamo combattuto sono state soprattutto quelle sottratte al nemico, e la nostra esperienza sarebbe fallita – come quel tentativo nel novembre del 1943 a Monte Battaglia – senza il sostegno fondamentale dei contadini, dei mezzadri, che vivevano sui monti dell’Appennino tra Romagna e Toscana.
Loro ci davano ospitalità, informazioni e viveri, malgrado vivessero in condizioni di estrema miseria. E i viveri che davano a noi erano quelli della parte che avrebbero dovuto dare al padrone.
La guerra di liberazione, la Resistenza, è stata anche un grande evento sociale e democratico: il contatto con i partigiani ha rappresentato per la popolazione con-tadina l’occasione di una presa di coscienza, della propria dignità, dei propri di-ritti. Fino ad allora erano vissuti in una condizione di totale subordinazione ai padroni, ed erano padroni fascisti, che negli anni ’20 avevano sostenuto e finanziato lo squadrismo fascista.
A loro dicevamo: “La terra a chi la lavora”, e che si poteva vivere e lavorare anche senza padroni.
Quella lezione, quell’insegnamento, ha lasciato il segno, e da allora i rapporti sociali, non sono più stati gli stessi.
La seconda considerazione, sul valore politico e democratico dell’esperienza partigiana. La 36. Brigata Garibaldi, come tutte le Brigate Garibaldi che operano nel centro-nord dell’Italia è di orientamento social-comunista, con un diretto collegamento politico con l’organizzazione del PCI.
Ma non ci sono solo comunisti.
Chi, come me, come gli altri giovani, entra in Brigata non ci entra “da comunista” o da militante di sinistra..
Di “comunisti” a Casola non si è mai parlato. Sapevo che c’erano persone che erano socialisti o comunisti, perché erano dei perseguitati, che venivano genericamente definiti “sovversivi”.
Capitava che quando un gerarca del regime fascista veniva a Faenza o a Ravenna, per ragioni di sicurezza arrestavano questi 3 o 4 che erano considerati dei sovversivi pericolosi.
Noi non riuscivamo a capire quali ragioni avessero di opporsi al regime. Non capivamo perché rifiutassero la tessera del partito fascista.
La propaganda nelle scuole era massiccia e chi era, o si sapeva che era stato antifascista, era additato come un “asociale”.
Di partito Comunista ho sentito parlare per la prima volta quando sono andato in Brigata. Non avevo ancora 19 anni, e mi hanno chiesto di che partito ero. Non ho saputo cosa dire.
Da giovani avevamo sentito queste parole - “comunisti”, “socialisti” - in certe canzoni fasciste dove venivano citate per parlare della “barbarie rossa” in Spagna o delle nefandezze comuniste in Russia.
La mia scelta politica è maturata dopo. Nessuno di noi aveva una cognizione esatta di cosa fosse il Partito comunista, ma ci sentivamo attratti verso quegli ideali e verso quel partito perché era il partito che più di altri aveva combattuto il fascismo.
Nel 1945, insieme ad altri giovani, abbiamo costituito l’organizzazione del PCI a Casola Valsenio che operava in stretto collegamento con l’organizzazione, ricostituita, del Partito Socialista.
Questi partiti, con il Partito d’Azione e l’altro grande partito italiano, la Democrazia Cristiana, sono stati il nucleo centrale della resistenza antifascista e i protagonisti della ricostruzione democratica dell’Italia
E’ di quegli anni la conquista della Repubblica nel referendum del 2 giugno 1946, l’elezione dell’assemblea costituente e le prime elezioni comunali, e l’approvazione, il 1° gennaio 1948, della nuova Costituzione.
Nessuno di questi risultati sarebbe stato possibile senza la Resistenza antifascista.

Casola Valsenio, 8 agosto 2004

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