domenica 20 dicembre 2015

NOTE CASOLANE - Sinnius flumen (prima parte)

(da Il Senio, n. 15 – maggio 1984)

di Leonida Costa

Ignorante qual mi riconosco in materia di oro-idrografia, non avrei mai osato scrivere – nonostante ripetute amichevoli sollecitazioni – intorno a un corso d’acqua, se non si fosse trattato del Senio, per l’appunto l’unico fiume di cui abbia una conoscenza intima, acquisita durante molti anni di vita in comune e di rapporti economici ed affettivi.
Sono nato infatti, cresciuto e invecchiato nel suo letto e alla sua linfa da parecchi secoli attingo le radici del mio albero genealogico.
"’E fiom"- così lo chiamiamo per antonomasia nel dialetto locale fu in ogni età elemento primario, centro di attrazione del mio piccolo mondo.
Ho trascorso gran tempo dell’infanzia e della fanciullezza trastullandomi sulle sue rive; vi ho raccolto le viole per la signora maestra, i fiori di farfaro che venduti a 20 cent il chilo mi rifornivano i l salvadanaio, la canna da cavalcare a guisa di focoso destriero, il vinco flessibile da cui ricavare l'arco e la rustica piva, il rametto biforcuto del salice per farne la fionda, i sassi piani per i l gioco delle marelle o del rimbalzello, la verga di tamerice per frustare la prilla… Divenne più tardi i l luogo prediletto di ritrovi camerateschi, bisbocce, idilli e avventure di vario genere; vi guizzai in cerca di refrigerio o a pesca di barbi, lasche, anguille; mille volte risalii e discesi la valle in sua compagnia; e - nella stagione in cui poi fio i sogni e le speranze vi passai lunghe ore solitarie e pensose, delle quali ancora mi punge un'eco remota di malinconia. Oggi trasferito presso diverso e precario lido non posso pensare al fiume nativo senza che m'investa con ondate improvvise di ricordi: e mi sfilano davanti agli occhi della memoria, come in un album di vecchie care fotografie, cento e cento sue immagini familiari.
Ora lo vedo fluire limpido e placido, simile all’argentea scia di un lumacone, ora gonfio e livido di rabbia, mugghiante e vorticoso, o tracimato dagli argini e diffuso come un gran lago di fango, ora rispecchiare nei tremuli flutti l’azzurro del cielo, il grigiore di nuvole vagabonde, il verde di penduli rami o volti di persone amate; ora riflettere la pallida luce del plenilunio o lo sfolgorio del sole meridiano. Qui seguo branchi di avannotti che risalgono la corrente inquadrati come soldatini, danze evanescenti di libellule, flottiglie di  anatre in crociera; lì osservo l’insidia della biscia, il tonfo della rana, lo schizzo del pesce, la picchiata variopinta dell’alcione, il volo radente della rondine, le manovre del ragno palombaro... Ecco lavandaie e sabbiaroli al lavoro, buoi e cavalli alla beverata, bimbi che giocano, tuffi e bracciate di adolescenti, un pescatore tacito e immobile con la sua canna, chiassose fanciulle al bagno che ostentano agli sguardi indiscreti - fingendo di nasconderle - procaci nudità, gruppetti di curiosi sul ponte che assistono allo spettacolo della piena e fiumaroli che arpionano relitti.
Insomma - per non tenere troppo lunga la gugliata - dirò che del Senio conosco le abitudini, gli umori, gli aspetti, le qualità, la storia almeno per quel tanto che mi consente di parlarne a buon diritto, anche se non proprio a livello scientifico. E ne colgo volentieri l'occasione, soprattutto perché intendo sollevare una questioncella che da tempo mi pesa sullo stomaco.
La questione - che agli estranei ma non a noi valligiani, può sembrare di lana caprina - si presenta in questi termini: il Senio è un fiume, come sempre fu detto, ovvero un torrente, come vorrebbero taluni saputi innovatori?
Nei più recenti trattati di geografia, atlanti, guide turistiche, enciclopedie, ecc. esso appare ora con l'una ora con l'altra qualifica e perfino con entrambe usate alternativamente in un medesimo testo. Qualche autore poi ligio ala norma "in dubijs àbstine" lo indica con il semplice nome di battesimo. Presso il ponte di San Procolo, sulla via Emilia, campeggia un cartello con l'indicazione "Torrente Senio", che fa storcere il naso e la bocca ai rivieraschi, per i quali fu e resta "il fiume". 
Tanta ambiguità genera incertezza e contrasto, offende il senso comune e un pò scredita anche la cultura: per cui si rende doveroso e necessario chiarire una buona volta quale sia il corno giusto del dilemma. A tal fine, prima di porre in discussioneil punto di vista della scienza innovatrice, gioverà sentire l'autorevole parere del lessico e la valida testimonianza della storia.
Per i Latini - che parlavano la lingua più chiara e precisa del mondo - flumen (dal verbo fluere, scorrere) era il corso d'acqua sorgiva di portata varia ma perenne; torrens (participio presente di torreo = che brucia, che si secca e - in senso traslato - ribollente, rapido, vorticoso) era invece il corso improvviso temporaneo, alimentato soltanto da piogge. I due vocaboli entrarono poi nelle lingue romanze senza subire variazioni semantiche; e li ritroviamo con il significato originario nel Calepino e in tutti i dizionari vecchi e nuovi. Sotto l'aspetto strettamente lessicale, non dovrebbero pertanto sussistere dubbi: il Senio è un fiume, piccolo finché si vuole ma fiume. Nasce da sorgente, anzi da più sorgenti, tant'è vero che ancora non si è stabilito con certezza quale di esse ne sia il "caput". Sulla destra - oltre alla Sintria, suo maggior affluente - riceve una ventina di rii ed altrettanti sulla sinistra; e scorre ininterrottamente da centinaia di migliaia di anni.

D'estate va soggetto - secondo le leggi naturali- a periodi di magra più o meno rilevanti; ma in altri tempi capitavano fiumane anche a... ferragosto, come rilevo da un paio di curiosi documenti che per caso ho sottomano:
"Ad perpetuam rei memoriam - Riolo oggi 30 Agosto 1837.
Alle ore una circa pomeridiane venne in questo nostro fiume Senio una fiumana non più ricordata da persona vivente. Io, don Antonio Costa annotai".
"Riolo, li 16 Agosto 1842
Oltre alla funesta notizia dell'annegamento dell'infelice Giuseppe Sagrini accaduto in questo fiume Senio ieri 15 corr. per una stravagante piena, m'è d'uopo far conoscere alla S.V. Ill.ma che le pedagne e i vari ponticelli di ragione comunale sono andati distrutti...".
A parte queste ed altre intemperanze, l'acqua nel Senio non è mai venuta meno completamente; posso anzi affermare che da quando sono al mondo, vi ho sempre visto guizzare non solo i pesciolini novelli, ma anche i loro genitori, i nonni e certi bisarcavoli, di età e dimensioni straordinarie, che nemmeno un'ora potrebbero vivere all'asciutto. Prima che esplodesse il progresso, e specie durante la canicola, il fiume ci serviva come vasca da bagno, piscina, spiaggia popolare, lavanderia; e ancora fa girare ruote di mulini; innaffia orti, giardini, strade; abbevera bestiame e - opportunamente depurato - interi paesi, Sotto il governo pontificio il concorso ai bagni fluviali, nei mesi di luglio e agosto, era talmente massivo che il Cardinal Legato cercava di disciplinarlo con severi editti, intesi a prescrivere un adeguato occultamento delle "vergogne", a scongiurare il pericolo di promiscuità sessuali, di occhiate e tentazioni peccaminose:
"...è vietato bagnarsi presso il Castello e luoghi abitati dopo che si sia alzato il Sole e fino alla mezzora di notte, altrimenti si procederà contro li Trasgressori colle pene di legge, ed anche per via d' inquisizione... Il luogo destinato per li bagni di giorno in questo Fiume Senio si è dalla carrara detta della Fornace della Ripa fino alla chiusa del Molino Rondinini, ferme sempre restando tutte le prescrizioni relative al pudore e alla decenza...".
Ritengo di aver sufficientemente dimostrato che il Senio è un corso d'acqua perenne, vale a dire, secondo il concetto lessicale, un fiume.   
E' ben vero che la sua portata estiva è oggi alquanto diminuita: fenomeno però comune a tutti i fiumi che scendono dall'Appennino e dovuto a variazioni climatiche, al disboscamento, al soverchio e spesso abusivo prelievo idrico. E' vero anche che in periodi eccezionali di magra le sue acque giungono adesso in pianura pressoché morte, inquinate e simili a liquame: ma che resta ormai nel nostro mondo che non sia inquinato o sulla via di diventarlo?   

La storia - sentita come testimone - conferma che il Senio venne denominato "fiume" per una ventina di secoli; e che inoltre fu spesso teatro di memorabili vicende: ragione per cui il titolo - foss'anche improprio - gli spetterebbe oramai per diritto di usucapione o - se vogliamo - 'honoris causa'. Il più antico documento che lo ricorda con tale titolo è la 'Tabula Peutingeriana', un rotolo pergamenaceo lungo 7 metri e largo 30 cm., ove fu rappresentato il mondo romano dalla Britannia alla Cina. Si tratta di copia tarda e lacunosa delle carte fatte eseguire da Marco Vispanio Agrippa, genero e ministro dell'imperatore Augusto.
Ciò comprova che il Senio era ben noto fino da epoca romana, in qualità di fiume; e non senza ragione il mggior esperto di geografia antica - Enrico Kiepert, berlinese - lo inserì nella carta delle "Undecim regiones Italiae ab Augusto imperatore constitutae".
Dopo la lunga parentesi dei secoli bui, troviamo il "flumen Sinnius" menzionato in alcune pergamene degli antichi archivi ravennati (anni 1021-1037-1154-1275-1277-ecc.), nelle bolle dei papi Onorio II (a. 1126-1130), Eugenio III (a. 1151), Alessandro III (a. 1179) ed in varie cronache mediovali. A partire dal sec. XIV viene ciaoto frequentemente, come linea di confine, negli atti dei  notai valligiani e circondariali; sempre con l'apposizione 'flumen' e nelle varianti 'Sinnius', 'Simnius', 'Scennius', 'Sinnus', 'Sinus', 'Sinius', 'Sennus', 'Senius'.
Non ha mai, come altri fiumi, cambiato nome.
Riferisco tuttavia, a titolo di curiosità, che fra Cherubino Ghirardacci nella "Historia di Bologna" narra come Teodosio nel 430 assegnasse per confine alla città "dall'Oriente il Sannubio, o vogliamo dire Senio, che scende dalle alpi e pone capo nelle Valli del Po...": il buon frate deve aver preso un abbaglio, essendo il solo, ch'io sappia, a chiamarlo Sannubio.
Nelle opere a stampa compare la prima volta ne "L'Italia illustrata" di Flavio Biondo: "...flumina Annomo, Senius et Vatrenus ac Padus in mare unis ostijs confluunt..."; indi nella "Descrittione di tutta Italia" di Leandro Alberti:
"...al basso scendendo, ritrovasi la foce del fiume Senio, che esce dall'Appennino presso le Alpi 5 miglia, vicino o un luogo detto Torto; et quivi scendendo, spezza la via Emilia, et mette capo nella Padusa palude, ove è la selva di Lugo...".
Ancora e sempre come fiume è inserito nella carte geografiche del Maggini (1598), dell'olandese Blaeu (1605); del Cavina (1678), del Coronelli (1692), del Mansieri (1765).
Trattano dell'antico suo corso, delle sue alluvioni, rotte, arginature e vicende varie molte storie locali (G. Bonoli, Morgagni, Soriani, Llnguerri, Ceroni, Cerchiarli Orlandi...) ed opere corografiche del secolo passato (Calindri, Stefani, Rosetti...).
Gli studiosi di scienze geologiche ci insegnano un sacco di cose interessanti ed utili: sanno dirci a occhio e croce l'età di un sasso, come si formò la vena dei Gessi, i tempi in cui al posto della valle stava il mare con tanto di squali e balenotteri, perché viene il terremoto, a quale animale appartenne uno scheletro fossile; ci sanno dire, senza bisogno di fare i l buco cosa c'è nel sottosuolo. . .
Meritano la nostra simpatia e ammirazione: tutti meno certuni troppo inclini alla pignoleria, alle definizioni arbitrarie e sofisticate. Mi riferisco a coloro i quali - inforcati gli occhiali, metro e goniometro alla mano - stabilirono che un corso d'acqua, se supera la pendenza del 3,5%, se è stretto di bacino o ancora in età immatura, vale a dire in fase erosiva, debba necessariamente, e a tutti gli effetti, chiamarsi torrente e non fiume: quasi si trattasse d'un concorso di bellezza o di una visita militare di leva.
Considerato che limite di pendenza e ampiezza di bacino hanno ben poco a che vedere con il concetto tradizionale di torrente, che ogni corso d'acqua sorgiva ha più o meno carattere torrentizio quando scende dai monti e fluviale quando arriva in pianura e che il ciclo erosivo è subordinato al grado di disgragabilità della roccia - sembra a noi profani che un simile metodo di classificazione dia luogo ad una serie infinita di casi intermedi ed ambigui e si presti più a confondere che a distinguere due termini geografici che erano già abbastanza chiari. A parte poi ogni considerazione di carattere lessicale o idrografico, troviamo assurdo e ridicolo, nel caso nostro privare il Senio di un attributo ormai consacrato da una tradizione bimillenaria. Nessuno ha mai pensato di degradare a torrente il piccolo ma storico Rubicone, di cui si erano smarrite perfino le tracce, attualmente identificato nel Fiume Pisciatello o nel Fiumicino, nomignoli che si commentano da soli.
Che direste - un esempio fra mille! - se Monte Mario (m. 139 di alt. s.l.m.) , reso celebre dal meridiano che l'attraversa - venisse ribattezzato Colle o Poggio Mario, solo perché raggiunge la quota di m.600 prescritta dai geologi per la qualifica di un monte?  Ma ciò che maggiormente ci brucia non è tanto la nuova regola in sé, quanto il fatto che sia stata applicata senza criterio e con diverso metro.
L'illustre naturalista Pietro Zangheri si chiede giustamente come mai fra i vari corsi d'acqua romagnoli, di caratteristiche pressoché identiche, solo il Senio sia stato retrocesso al grado di torrente, mentre viene considerato fiume il Rabbi, notevolmente superiore in pendenza e più stretto di bacino.
Pare che il maggior responsabile di questa sconsideratezza e parzialità sia stato un tal E. Perrone, incaricato nel 1910 dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio di compilare una carta idrologica d'Italia: nella quale appunto perpetrò il declassamento del Senio.
Il punto di vista di Perrone (o forse meglio la svista!), ottenuta la ratifica ministeriale, venne prontamente assimilato dall' Istituto Geografico Militare, dal Touring Club Italiano, poi dai soliti pedissequi, con le contrarietà e gli inconvenienti che già fin troppo a lungo ed acerbamente abbiamo qui lamentato.

***

(continua)

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