di Achille Occhetto (l'Unità, 10 febbraio 2017)
C’è bisogno di un nuovo riformismo sovranazionale che si contrapponga all’«America first» di Trump, ponendo al centro l’umanità tutta. Nessuna nazione può affrontare da sola le grandi sfide globali, ma l’architettura dell’Ue va ripensata
Il 27 marzo si celebreranno in Campidoglio i 50 anni dei Trattati di Roma. Sarà per l’Europa un importante momento di riflessione sulla sua crisi nel contesto di una più generale visione del mondo e della politica. Dovrebbe essere, a mio avviso, una buona occasione per prendere le mosse dalla consapevolezza che ci troviamo dinnanzi ad un tornante di proporzioni incalcolabili nella storia del mondo e dell’Europa, che avrà un indubbio riflesso planetario.
In realtà la politica europea –e il centro sinistra, in Italia – sembrano essere del tutto impreparati all’immane scontro contro le tendenze centrifughe e disgregatrici che si stanno parando davanti a noi. Per avere qualche possibilità di successo, nello sforzo volto ad arginare lo tsunami nazionalista, occorrerebbero, a mio parere, due condizioni preliminari. La prima è quella di non presentarsi come i difensori acritici delle attuali istituzioni politico-finanziarie internazionali; la seconda è quella di prendere decisamente nelle proprie mani la critica alla perversa globalizzazione delle politiche neoliberiste e di austerità. Se non si strappa dalle mani dei movimenti nazionalisti questa critica, la partita è persa.
C’è bisogno di un nuovo riformismo sovranazionale – oserei dire cosmopolita –che si contrapponga all’America first di Trump o alla Francia, alla Germania, al Veneto first, ponendo al centro l’umanità tutta. L’Umanità First. Non si tratta solo dell’antico ideale internazionalista. Si tratta di una emergenza politica concretissima. Non esiste oggi nessun tema di politica nazionale che non sia condizionato dalle nuove sfide globali. Che sono fondamentalmente tre: la spaventosa voragine della diseguaglianza planetaria, foriera di immigrazioni bibliche e di guerre; la terrificante crescita demografica, e il cambiamento climatico. Non c’è nessuna nazione che possa isolatamente affrontare uno solo di questi temi.
Da questa inconfutabile considerazione derivano due conseguenze. La prima è che tali sfide possono essere affrontate solo a livello planetario, attraverso l’intervento solidale e coordinato di tutto il pianeta; la seconda, è che va radicalmente superata l’angusta visione della competizione liberista dentro i vecchi steccati dello Stato nazione. La parola competizione va sostituita con la parola cooperazione. In questo contesto, da parte loro, la sinistra e il centro sinistra dovrebbero acquisire la forza ideale e politica di cambiare il terreno dello scontro, anche attraverso una nuova predicazione di massa, come avvenne agli albori del movimento socialista. Questa ispirazione generale ha oggi il suo immediato banco di prova nella visione che ciascuna forza politica ha dell’Europa.
Questa è la posta in gioco nelle prossime celebrazioni dei Trattati di Roma. Oltre ai balli, ai fuochi di artificio, ai banchetti e alle cerimonie saranno necessarie anche le idee. Per ora se ne vedono poche e limitate. È inutile girarci attorno: l’alternativa che sta dinnanzi a noi è tra uscire dall’Europa o riformarla . L’unica via che non si può seguire è quella di lasciare le cose come stanno, sia pure attraverso palliativi o mezze misure che lasciano il tempo che trovano.
E ciò avviene se ci si ostina a non guardare in faccia alla realtà, a nascondere la causa fondamentale di tutti i nostri mali, a non confessare apertamente che la risposta dell’Europa alla crisi iniziata nel 2008 è stata una risposta sbagliata, e, in molti casi, catastrofica. Tutte le misure neo-liberiste hanno ampiamente fallito l’intento di rilanciare la crescita e l’occupazione, aprendo così una lunga fase di stagnazione.
L’aumento della disoccupazione e la crescita dell’indigenza, accompagnate dalla contrazione della spesa pubblica, hanno reso il quadro ancora più fosco. Il crescente rischio di povertà ha minato i fondamenti stessi della giustizia sociale. In questo contesto sarebbe davvero da incoscienti non vedere come l’ondata nazionalista o, più semplicemente, euroscettica, che sta investendo il vecchio continente, sia alimentata proprio da tale fallimento. Mi sembra che manchi ancora la consapevolezza che, come è già avvenuto in altri momenti tragici della storia europea, o si procede in avanti, attraverso un rafforzamento della partecipazione democratica e delle riforme strutturali, oppure si soccombe sotto la valanga di critiche giustificate, che tuttavia prendono una direzione a prospettive catastrofiche.
I movimenti euroscettici ravvisano, come ha fatto da ultima la Le Pen, in un deficit di sovranità economica, finanziaria e politica il male del momento. In questo hanno ragione. Ma su cosa hanno torto? Hanno torto nel ricollocare la sovranità nell’ambito delle vetuste frontiere nazionali. Il vero problema è quello di chiedersi: dove sta la sovranità? Nel passaggio dal livello nazionale a quello sovranazionale sembra essersi volatilizzata. È diventata un oggetto misterioso. Questo è il motivo principale della crisi strutturale della democrazia su scala mondiale.
Ma se le cose stanno così, il vero problema non è quello di ricollocare la sovranità esclusivamente dove stava prima, ma è quello di darle una nuova dimora sovranazionale, rispettosa di tutte le diversità e forme coordinate di partecipazione e controllo nazionale e lo cale. Lo sappiamo: il peccato originale dell’euro è stato quello di deprivare gli Stati membri della loro autonomia fiscale senza trasferire il loro potere di spesa ad una autorità più alta. I fatti hanno ampiamente dimostrato che non si può avere una moneta senza uno stato. Un nuovo riformismo transnazionale non può esimersi dal porre, in avanti, tale tema, se non si vuole essere travolti dalle risposte retrive agli attuali limiti di tutta l’architettura istituzionale europea.
Tutto ci dice che la costruzione dell’unione fiscale non può prescindere dalla costruzione dell’unità politica. Infatti è contraddittorio mantenere una unione monetaria, con una politica monetaria centralizzata, in mancanza di una comune politica finanziaria ed economica capace di raddrizzare gli sbilanciamenti macroeconomici tra i diversi paesi membri. Non solo è contraddittorio, ma rischia di far rientrare dalla finestra i confitti e i contrapposti interessi nazionali fatti uscire dalla porta.
Per questo una effettiva unione fiscale richiederebbe una capacità impositiva a livello dell’unione monetaria che garantisca un graduale trasferimento di risorse dai paesi più ricchi a quelli più poveri, una autorità federale capace di un impegno concordato sul “deficit spending”, accompagnato da un decisivo trasferimento di legittimità e partecipazione democratica dal livello nazionale a quello sovranazionale. Dobbiamo farcene una ragione: nulla potrà essere salvato dell’attuale architettura europea se non si imbocca con decisione la strada del superamento delle politiche di austerità. Questo vorrei sentirmi dire, prima ancora di sentir parlare di astratti schemi di gioco.
Eminenti economisti come Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi, Peter Bofinger, Stephany GriffithJones e molti altri, hanno da tempo dimostrato, con i loro circostanziati studi, che le devastanti politiche di austerità ben lungi dal capovolgere il corso della crisi hanno peggiorato la situazione. Sono in molti, tra loro, a invocare un approccio orientato alla crescita sia sul terreno delle politiche fiscali, degli investimenti sociali e delle infrastrutture, sia nella ristrutturazione del debito. Ma si tratta di invocazioni in gran parte inascoltate.
Un effettivo rilancio degli investimenti pubblici e privati richiede una visione unitaria, di portata federale, del rilancio dell’economia che determini un circolo virtuoso tra i necessari stimoli fiscali, il sostegno della domanda e l’alleviamento dell’eccessivo peso del debito, attraverso attente valutazioni sulla sostenibilità del debito stesso. Tutto il contrario dell’atteggia – mento assunto verso la Grecia o verso l’immigrazione in Italia. Se non si considera, come è avvenuto in alcuni casi negli Usa, che le difficoltà di uno Stato membro sono un problema di tutta l’Unione, non avremo mai una autentica Europa politica. Dinnanzi allo spettro nazionalista e reazionario che sta investendo il nostro continente sarebbe un errore fatale chiudersi nella mera difesa delle attuali istituzioni politiche. Altrettanto insufficiente sarebbe nascondersi dietro alcuni palliativi. La stessa ipotesi di una Europa a due velocità non dice nulla di preciso se prima di decidere la velocità non si chiarisce la direzione verso la quale si intende muoversi. Solo quando sarà chiaro verso quale Europa ci si muove ciascuno Stato potrà decidere con quale velocità è in grado di correre verso l’identico obbiettivo. Il punto di partenza dovrebbe essere la ridefinizione dell’insieme dell’architettura europea.
La risposta alla crisi non è meno Europa ma più Europa, non è meno democrazia ma più democrazia. La prospettiva, indicata dai padri fondatori, che andava nella direzione degli Stati Uniti d’Europa, potrà diventare realtà viva solo se ci si muove contemporaneamente sia nella direzione di una democratica federazione di cittadini che abbia il suo fulcro nel rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo e l’elezione diretta del presidente della Commissione europea e sia muovendo oltre il paradigma neoliberale che ha sottoposto la politica alle decisioni, democraticamente incontrollate, del potere finanziario. Non ci sarà riforma istituzionale capace di superare l’attuale gap tra società civile e istituzioni europee se non si ridà alla politica il posto di comando.
Il rafforzamento delle decisioni democratiche va di pari passo con la riduzione del potere delle istituzioni finanziarie e tecnocratiche per muovere decisamente contro le politiche macroeconomiche fondate sull’austerità. L’Europa dovrebbe essere guidata dall’orgoglio di diventare un banco di prova per passare dalla globalizzazione della finanza alla globalizzazione democratica, per superare l’attuale mancanza di governo democratico dei processi, per affrontare più agevolmente le sfide globali che stanno dinnanzi al pianeta.
È, a mio avviso, molto preoccupante vedere come la critica alla globalizzazione da parte di forze conservatrici venga subita passivamente dai mass media e da una parte dello stesso pensiero di sinistra. Si è perso il gusto della battaglia delle idee. Si è smarrita la nozione gramsciana della lotta per l’egemonia culturale, resa oggi quanto mai necessaria per sottrarre grandi masse, mosse da giusti motivi di protesta, alla guida di forze retrive. Ciò richiederebbe una più decisiva battaglia culturale nei confronti delle generiche denunce contro la globalizzazione, volte a far girare all’indietro la ruota della storia.
La crisi della globalizzazione finanziaria è la crisi del paradigma neoliberista: l’indifferenziata critica alla globalizzazione in generale è una forma mistificata di apologia dell’attuale modello di sviluppo. Se il riformismo transnazionale non prende, invece di giocare di rimessa, decisamente in mano la critica all’attuale Europa, nessuno potrà arginare l’ondata populista e nazionalista in corso. Molte denunce che vengono da quella parte sono giuste; sono le risposte ad essere sbagliate. Cerchiamo tutti assieme, tutte le sinistre che attualmente si stanno azzannando sul nulla, le risposte giuste.
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