domenica 11 marzo 2012

Abbiamo un partito, abbiamo un leader, votiamo una linea. Questa è la democrazia.

di Gianni Cuperlo (l’Unità, 10 marzo 2012)

C’era una volta la rubrica di Cuore “parla come mangi”. Traduceva il gergo politico in sentimento e riduceva le formule, di solito le più pedanti, a pura sostanza. Era spassosa. Spesso cattiva, ma spassosa. Mi è tornata in mente dopo quest’ultimo capitombolo palermitano. Che tale è per diverse ragioni, tutte risapute. Ma il punto, come si è visto dalle reazioni, travalica l’ambito locale e investe il PD, la sua strategia, la sua leadership. 
Dovrei citare una serie di dichiarazioni ma porterebbe via dello spazio e allora mi fermo alla traduzione.
Che più o meno suona così: «1. Milano, Genova e adesso Palermo, qua le perdiamo tutte. 2. La linea del segretario va spedita contro un muro. Primo perché con Vendola e Di Pietro ci condanniamo a una opposizione perenne. Secondo perché, quando pure dovessimo vincere nelle urne, ci sfasceremmo il giorno appresso, sulla Tav o qualcos’altro. 3. Dopo un premier bocconiano – sobrio, capace e poliglotta – tutto si può immaginare meno che portare a Palazzo Chigi il filosofo di Bettola.
Per cui – e questa è la chiusa – mettiamo una lapide sul centrosinistra e prepariamoci a un Monti bis con qualche correttivo o in ogni caso a quella svolta centrista del PD che oggi sta nelle cose. Contenuti e alleanze comprese».
Ora, che questa analisi, depurata dalle asprezze personali, orienti la linea del Corriere della Sera tutto sommato è comprensibile. Meno che sia la traccia di un pezzo – non so quanto esteso – del nostro partito. E ciò non tanto per la logica di squadra, o di comunità, che non ricordo più dove abbiamo abbandonato (ma da qualche parte l’abbiamo abbandonata) quanto per la negazione delle ragioni che il PD fondarono soltanto alcuni anni fa. In sintesi, quel progetto mirava a fondere tradizioni distinte del riformismo in una moderna identità “democratica”, collocando la nuova forza nel campo progressista e facendone il perno di una delle gambe del nostro bipolarismo.
Al primo tentativo, nel 2008, abbiamo perso. Tutto dovrebbe spingerci a considerare la volta prossima – il 2013 – come data della rivincita. E invece no. Quell’impostazione, secondo alcuni, oggi va rivista, e non nei suoi complementi ma nel nocciolo. Forse è legittimo chiedersi il perché. Tanto più che altre forze – una per tutte, il partito di Casini – perseguono, adesso come prima, una strategia che nega ogni sensatezza alla prospettiva bipolare e rivendica per sé non solo il ruolo di terza gamba, o polo, ma quello di arbitro per ogni possibile e futura coalizione. Preferibilmente da formare all’indomani del voto. Si dice «dopo Monti, nulla sarà come prima».
Sintesi efficace – e infatti è faticoso dissociarsene – ma pure tronca, nel senso che quel «dopo» andrebbe spiegato. Fosse solo per impedirgli di somigliare troppo a un vecchissimo «prima» con l’archiviazione dell’alternanza a vantaggio di altre pratiche di governo. E allora, tornando alle ultime polemiche di casa, resta misterioso il balzo che dovrebbe indurre il nostro partito a rinunciare alla sua corretta vocazione. Descritta a un certo punto come «maggioritaria», e quella era persino troppa grazia, ma almeno farci asse di un progetto di svolta per l’Italia non dovrebbe rappresentare, mai come ora, la vera priorità? Questo almeno se allunghiamo lo sguardo a quanto accade fuori da noi, in Europa e sull’altra sponda atlantica. Dove le forze di progresso e di sinistra vanno alla battaglia e lo fanno sull’onda di una lettura della crisi che viene prima di ogni alchimia. La loro iniziativa punta al cuore del conflitto: e cioè se uscire dalla crisi più dirompente degli ultimi decenni remando nel verso degli altri o invertendo la rotta, nella convinzione che da questo braccio di ferro dipenderà un ripensamento dei modelli di crescita e cittadinanza.
È su questo che l’Europa si gioca il suo avvenire. E per quanto ci riguarda pure l’America democratica. Se dalle diseguaglianze immorali travestite di modernità degli ultimi sei o sette lustri si uscirà con un nuovo patto politico e sociale tra economia, finanza e democrazia. O se preferite, tra Stati, mercati e persone. Sarà uno scontro niente affatto moderato, nei toni come nelle soluzioni. E l’idea stessa della politica, come strumento agibile per milioni di individui, ne risentirà. Anche perché cresce l’onda lunga di una riciclata teoria delle élites, figliastra di vecchie scuole e invaghita oggi di una “tecnica” spacciata come neutra, ma in realtà intrisa di pregiudizi e di una concezione aristocratica del potere. Ecco, mi parrebbe curioso che mentre l’universo dei “democratici” su scala globale si interroga e si spende in questa partita, noialtri ci si scarnifichi sulla foto di Vasto.
Al diavolo Vasto e le foto. Siccome conviene passare dal muto al sonoro, a me pare decisivo rispondere a una sola domanda: ma noi siamo parte di quella ricerca, e dunque vogliamo tenere aperto il dialogo, prima di tutto in Italia, con forze, culture e movimenti che si collocano da questa parte del campo, oppure siamo dannati ancora una volta nel girone degli sperperatori del proprio talento e soprattutto consenso? Il tempo non abbonda e una risposta va data. Con una glossa finale. Se siamo della partita chi ce l’avrebbe i titoli per porsi alla guida di un progetto di riscossa politica, culturale e civica del Paese? Io penso – forse per distorta formazione occidentale – che tra i maggiori titolati vi sia il leader del primo partito del Paese, per la sua azione di questi anni, la condotta tenuta dopo il crollo della destra e le idee che insieme ad altri ha mostrato di possedere.
Quanto alla domanda «ma quale centrosinistra?» risponderei così: quello che noi – e sottolineo il “noi” – avremo la forza di forgiare, con quanti sono pronti a condividere, a parole e con gesti impegnativi e coerenti, un medesimo impianto culturale, uno stesso programma, una comune visione del futuro dell’Italia in un’Europa politica e non solo valutaria.
E allora ha ragione chi invita il PD a discutere di questo snodo. Anzi, se un appello posso rivolgere a Bersani è quello di non attendere oltre. Affrontiamola questa prova. Mettiamo in campo per l’anno o poco più che ci separa dal voto una strategia che investa su di noi, sul giudizio che diamo di questa stagione e delle prospettive per il dopo. Disponiamoci a una lunga rincorsa elettorale con lo spirito di chi può e vuole vincerla. Abbiamo un partito. Abbiamo un leader. Votiamo una linea. In fondo questa è la democrazia.

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