di Andrea Romano (l'Unità, 3 febbraio 2016)
Gli europeisti che hanno a cuore il futuro dell’Unione non possono accontentarsi di difendere l’esistente
È davvero un pessimo servizio quello che gli “estremisti dello status quo” stanno rendendo al futuro dell’Unione europea, come dimostrano le parole venute ieri da Manfred Weber. Chi sostiene, come ha fatto il capogruppo del PPE all’Europarlamento, che l’unica strategia praticabile per l’Europa sia mantenere la rotta seguita fin qui, forse non si rende conto della gravità della crisi che sta investendo la nostra casa comune.
Una crisi radicale, la più grave dopo la stagione dell’allargamento ad Est, che per la prima volta vede le classi dirigenti e le opinioni pubbliche del continente confrontarsi apertamente con una domanda che fino a poco tempo era confinata entro piccoli circoli di euroscettici: riuscirà l’Unione europea a sopravvivere? Se l’interrogativo è questo, gli europeisti che hanno a cuore il futuro dell’Unione e la sua capacità di uscire dalla crisi non possono accontentarsi di difendere l’esistente sperando che prima o poi passi la tempesta. Vale per il tema del “rigore” così come per le politiche migratorie, e vale anche e soprattutto per i poteri e le funzioni della Commissione Europea.
Nessuno può infatti nascondersi che sia proprio la Commissione ad apparire maggiormente indebolita da questo intreccio tra inadeguatezze delle tradizionali politiche comunitarie alla prova dell’emergenza migratoria o della sfida della crescita, tensioni tra Stati nazionali, conservatorismi istituzionali e pulsioni centrifughe vecchie e nuove come quelle che si registrano in Gran Bretagna o in Polonia. Così come è difficile negare che lo stesso presidente della Commissione, Jean Claude Juncker, rischi di trovarsi presto nel pieno di una crisi di credibilità politica e istituzionale. Una delle più solide tradizioni comunitarie, con l’eccezione dalle nomine niente affatto secondarie di Jacques Delors e Romano Prodi, vuole che il Presidente della Commissione Europea venga scelto tra gli esponenti politici di un piccolo Stato membro: una garanzia di maggior equilibrio nel delicato gioco di cui deve essere arbitro la Commissione e un modo per evitare che il governo dell’Unione venga influenzato più del lecito da una delle “grandi potenze” europee.
È accaduto con la nomina del lussemburghese Juncker, così come era accaduto prima con il suo connazionale Santer e poi con il lungo mandato del portoghese Barroso. Ma Juncker non è arrivato alla guida della Commissione solo in virtù della propria provenienza geografica. Alla base della sua elezione, nell’estate 2014, vi fu anche una sorta di “patto di legislatura” tra Popolari e Socialisti. Le due principali famiglie politiche europee scelsero di puntare sulla figura dell’ex presidente dell’Eurogruppo siglando un accordo ambizioso che avrebbe dovuto tradursi nel rilancio dell’Unione e nel rinnovamento delle sue politiche economiche e sociali. In questo spirito Juncker ha legato il proprio nome, tra le altre cose, a due iniziative di forte impatto simbolico: l’omonimo piano per un programma di investimenti su crescita e coesione e il progetto di redistribuzione dei migranti tra tutti i paesi membri dell’Unione.
Oggi possiamo affermare, a malincuore ma con spirito di verità, che entrambe queste iniziative sono rimaste poco più che lettera morta. E una Commissione che non riesce a tradurre in risultati concreti i piani ambiziosi come quelli che ha varato su due degli aspetti più cruciali del rapporto tra l’Europa e i suoi cittadini (la crescita economica e l’emergenza migratoria) deve porsi qualche interrogativo sulla propria efficacia. Per questo le parole di Weber sono apparse tanto stonate: serve davvero a poco, in questo scenario, sventolare la bandiera dell’ortodossia comunitaria di fronte alla minaccia che antieuropeismi sempre più forti e inefficienze sempre più visibili pongono alla sopravvivenza dell’Unione così come l’abbiamo conosciuta. I veri europeisti, coloro che vogliono davvero bene all’Europa, hanno il dovere di puntare il dito su quello che non funziona invece di nascondersi dietro un perbenismo che rischia di essere travolto dalla realtà. E tra i soggetti che dovrebbero alzare la voce possiamo certamente includere il Partito del Socialismo Europeo, che in questo periodo si distingue soprattutto per il silenzio con cui accompagna la crisi dell’Unione: invece di occuparsi di poltrone, in vista del convenzionale giro di nomine che accompagna il traguardo di metà legislatura europea, non sarebbe male vedere il PSE impegnato in una coraggiosa campagna per il rilancio e il rinnovamento dell’Unione (e anche per una maggiore efficacia della Commissione), contro quegli estremisti della conservazione secondo i quali tutto andrebbe nel migliore dei modi anche contro tutte le evidenze della realtà.
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