di Giorgio Sagrini (del Comitato direttivo PD - Casola Valsenio)
Da sostenitore dell’Italicum – inteso come sistema elettorale più adatto a realizzare il giusto equilibrio tra rappresentanza e governabilità nel determinare la composizione di quella che doveva essere l’unica Camera legislativa del parlamento italiano – mi sento di esprimere soddisfazione per la decisione della Corte costituzionale che, di quella legge, ha rigettato – di fatto – solo il turno di ballottaggio, mantenendone inalterato l’impianto.
Ma solo per una ragione. La sentenza ha fatto giustizia di tutte le contestazioni di incostituzionalità, profuse a piene mani, nell’ultimo anno, dagli avversari della ‘riforma costituzionale” e dell’Italicum.
Proprio le parti maggiormente oggetto di contestazione – premio di maggioranza alla lista che supera il 40%, capilista di collegio bloccati, possibilità per gli stessi capilista di essere candidati in più collegi (fino a 10) – sono state confermate dalla Corte costituzionale.
E’ stato invece dichiarato incostituzionale il turno di ballottaggio tra le due liste più votate del primo turno, previsto dalla legge nel caso nessuna lista avesse raggiunto il 40%. Le motivazioni non sono ancora note e sarà interessante leggerle; osservo tuttavia che, questa, era la parte della legge considerata, dai più, a minor rischio di contestazione.
Ma, motivazioni a parte, la sentenza previene di fatto alcune incongruenze che si sarebbero determinate dopo la mancata approvazione della riforma della Costituzione.
Mi spiego meglio: la riforma elettorale Italicum, approvata per eleggere la sola Camera dei Deputati e non anche per il Senato, era complementare alla riforma del bicameralismo e funzionale a creare – nella Camera dei Deputati – le condizioni per garantire la più ampia rappresentanza politica (con una bassa soglia di sbarramento al 3%) e, nel contempo – grazie al premio di maggioranza alla lista in grado di superare il 40% dei voti al 1° turno o di vincere il turno di ballottaggio tra le due liste più votate - esprimere una maggioranza parlamentare politicamente omogenea, in grado di assumersi la responsabilità di governare il Paese secondo il programma presentato.
Quindi, certezza del risultato e mai più “larghe intese” e, soprattutto, il riconoscimento ai cittadini del fondamentale diritto democratico di decidere non solo da chi farsi rappresentare ma anche da chi farsi governare.
All’epoca della “prima repubblica” – dove il Parlamento veniva eletto con due leggi, per Camera e Senato, di impianto proporzionale – questo diritto, questo potere, non era affidato ai cittadini e al loro voto ma ai partiti che, dopo le elezioni, contrattavano con chi e a quali condizioni allearsi per formare il Governo.
Ma perché - si è detto - non approvare l'Italicum anche per il Senato? Ché, se il referendum non avesse approvato la riforma, avremmo potuto avere una legge omogenea con quella della Camera.
Mi permetto di non essere d’accordo. Se fosse andata così, con la non approvazione della riforma costituzionale nel referendum – con la permanenza del Senato come camera legislativa, che vota la fiducia al Governo – l'Italicum applicato anche per l'elezione del Senato, avrebbe reso altamente improbabile, se non impossibile, la formazione di una maggioranza omogenea tra la Camera dei Deputati e il Senato. L’elezione del Senato, infatti, sarebbe stata il risultato dell’applicazione dell’Italicum su scala regionale, con il premio di maggioranza calcolato in ciascuna Regione e non sul “collegio unico nazionale”.
L’Italicum poteva essere solo e soltanto il sistema elettorale della fine del bicameralismo paritario. Avrei preferito altro ma il bicameralismo paritario è rimasto e la politica, il Parlamento, ora – senza condizionamenti imposti da scelte precedenti – può decidere quale legge elettorale dare al Paese per eleggere i componenti del nuovo Parlamento, che saranno ancora 630 alla Camera e 315 al Senato (in tutto, 945!) ...ché così hanno voluto gli italiani.
Il Parlamento può decidere di non approvare nulla di nuovo e andare alle elezioni con i due sistemi – per Senato e Camera – usciti da due diversi pronunciamenti della Corte Costituzionale:
quello sul Porcellum – dichiarato largamente incostituzionale, per le liste bloccate e per il premio di maggioranza del 60% al partito/coalizione più votato, che poteva scattare senza nessuna soglia minima, e valido per l’elezione del Senato con applicazione su scala regionale - e quello recente sull’Italicum, applicabile alla sola Camera dei Deputati.
I due sistemi sono entrambi di impianto proporzionale, con premio di maggioranza per il partito/lista che supera il 40% dei voti alla Camera dei Deputati e senza premio di maggioranza, ma con elevate soglie di sbarramento per le coalizioni e per i partiti non coalizzati, al Senato.
Vediamoli nel dettaglio:
Sistema di elezione della Camera: il Paese è diviso in 100 collegi, per eleggere 630 deputati. In ciascun collegio si presentano liste di partito o rappresentative di più partiti, ma con unico simbolo e denominazione, con un capolista – il cui nominativo compare sulla scheda elettorale – e altri candidati (da 3 a 9) per i quali l’elettore può esprimere due voti di preferenza, purché di genere diverso. Nella composizione delle liste ( e dei capilista) si deve rispettare la parità di genere.
La lista che, a livello nazionale, supera il 40% dei voti, ottiene il 55% dei 630 seggi della Camera dei Deputati. Il rimanente 45% dei seggi viene ripartito tra le liste che hanno superato il 3% dei voti. In base ai seggi ottenuti, il primo degli eletti di ciascuna lista è il capolista e, a seguire – se vi sono altri seggi da assegnare a quella lista – i candidati che hanno ottenuto più preferenze. È ammessa la candidatura dei capilista in più collegi e in caso di elezione in diversi collegi, è il sorteggio a stabilire quale sia il collegio di elezione.
Se nessuna lista supera il 40% dei voti, i 630 seggi vengono ripartiti, in ciascun collegio, con criterio proporzionale, tra le liste che hanno superato la soglia di sbarramento del 3%.
Sistema di elezione del Senato: i 315 seggi del Senato sono ripartiti tra le diverse Regioni in rapporto alla popolazione. I seggi sono assegnati con criterio proporzionale e con diverse soglie di sbarramento. In altre parole, partecipano al riparto dei seggi le coalizioni che – su scala regionale – superano il 20% dei voti e i partiti di quella stessa coalizione che superano il 4%. I partiti non coalizzati, per ottenere seggi devono raggiungere l’8% dei voti. Si può esprimere un solo voto di preferenza per un candidato della lista prescelta.
Le due leggi, così congeniate, permetteranno di esprimere un Governo sostenuto da maggioranze omogenee tra Camera e Senato?
Non c’è nessuna certezza che ciò possa accadere e – ferma restando l’immediata applicabilità dei due sistemi di voto – spetta al Parlamento decidere se e come cogliere la sollecitazione del Presidente della Repubblica che, nel messaggio di fine anno, aveva richiamato la necessità – quale che fosse stata la decisione della Corte sull’Italicum - di definire due leggi omogenee, tra Camera e Senato, per evitare rischi di ingovernabilità e di instabilità.
Io credo che il PD debba promuovere ogni utile tentativo per trovare l’intesa, la più larga possibile, per un sistema di voto che – più e meglio di quelli usciti dalle sentenze della Corte costituzionale – permetta di eleggere maggioranze omogenee e coerenti tra Camera e Senato, e una rappresentanza politica che sia espressione diretta dei territori ovvero della volontà degli elettori.
Se questo risultato, in un sistema non più “bicamerale paritario” come prefigurato dalla riforma costituzionale, si poteva ottenerlo con l’Italicum, in un sistema ancora a bicameralismo partitario – che impone che un Governo debba reggersi sulla fiducia non di una sola Camera ma di entrambe le Camere – si può ottenerlo con il Mattarellum, ovvero l’elezione del 75% dei deputati e dei Senatori in collegi uninominali a turno unico (viene eletto il candidato che ottiene più voti) e il rimanente 25% con criterio proporzionale. Si tratta del sistema elettorale con cui è stato eletto il parlamento nel 1994, nel 1996, nel 2001.
Il PD deve provarci a perseguire questa soluzione, con volontà e determinazione. Ma – come si dice dalle nostre parti – “per fare un fosso ci vogliono due rive”. Se anche da parte delle altre forze politiche ci sarà altrettanta volontà e determinazione si potrà trovare una soluzione condivisa. In caso contrario si andrà a votare con i sistemi elettorali usciti dalle sentenze della Corte e il PD – insieme alle forze democratiche e riformiste che vorranno condividere un programma di profondo cambiamento economico, sociale e civile del Paese - dovrà impegnarsi per risultare la forza politica capace di raccogliere il consenso sufficiente a ottenere la maggioranza dei seggi alla Camera e al Senato.
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